Emergenze

 

disegno di un bambino di Ponticelli

 

Un dizionario della frequenza d’uso collegato alla bocca dei nostri politici (che almeno vi sia collegato qualcosa!) fornirebbe – credo – risultati interessanti sull’incidenza della parola emergenza. Nei TG essa si accompagna ultimamente a musichette inquietanti e compare in sintagmi con le parole “ROM” e “rifiuti”.

Vale la pena andare ad investigare cosa ci dica il DELI riguardo alla storia della parola e la sua sfera semantica.

emergenza: s.f.  ‘circostanza o eventualità imprevista, spec. pericolosa’ (1667, V. Siri: LN XIX (1958 ) 40)

  • Vc. dotta, lat. emergere, opposto a mergere ‘affondare’ (d’orig. indoeuropea). La voce emergenza è attestata dal XVII sec.: “I vocabolari italiani ne danno esempi fin dal Settecento, con un passo del Salvini registrato anche dalla Crusca: “la congiuntura de’ tempi e delle emergenze“; e cercando bene si troverebbe sicuramente anche qualche esempio anteriore. Dopo, lo troviamo adoperato di tanto in tanto: “La Nazione” del 6 giugno 1889 asseriva che ‘in qualunque grave emergenza, in ogni evento decisivo del paese, Camillo Benso di Cavour vide acutamente…’. In tutti questi casi, tuttavia, il significato è sempre quello di ‘circostanza, per lo più seria, che interviene inaspettatamente’. Il passo ulteriore che la parola ha fatto, è quello di ‘urgente necessità, pericolo’. E non c’è dubbio che su questo significato ha influito l’analogo uso inglese [emergency]: si sa che gli inglesi usano molto la litote eufemistica e si capisce che invece di dire ‘allarme, pericolo’ abbiano adoperato, per velare un po’ le cose, una parola più blanda. Teoricamente, è un emergere anche quello del numero che fa vincere cento milioni alla lotteria; ma ormai ci siamo abituati a chiamare emergenze solo quelle gravi, piene di pericoli, e adesso che la parola si è messa su questa strada, è difficile fermarla, tanto più che la locuzione stato d’emergenza è stata ufficialmente adoperata” (Migliorini, Profili)

Aveva ragione da vendere, il buon Migliorini. Infatti la parola, su quella strada, non solo non si è fermata, e suona più grave di “pericolo” (forse anche per l’assonanza con “urgenza”) ma ha addirittura acquisito il magico potere di creare delle emergenze laddove non ci sono, di creare allarmismo. La sola evocazione della parola è in grado di creare l’emergenza stessa. Dove prima c’erano dei problemi, gravi che siano ma gestibili con un po’ di sano buon senso, ora c’è lo stato d’ emergenza.

Allo stesso tempo, però, pare che la parola sia tornata al suo significato etimologico primario, ovvero di “cosa che emerge“. Non proprio inaspettatamente come vuole la definizione, però.

Io ad esempio un po’ me l’aspettavo, e precisamente dalla scorsa legislatura, dall’omicidio Reggiani, da quando il buon Walter Sepoffà (e infatti poi “si fece”), dopo 7 anni da primo cittadino di Roma, si accorse improvvisamente della presenza di campi nomadi a Roma. O dovrei forse dire si accorse di quanto fosse comodo farli “emergere“? Doveva scrollarsi di dosso l’aura di “buonismo” (altra parola molto di moda) di quelle checche arcobaleno, sempre pronte a difendere il “diverso”. E così, un giorno di dicembre, gli zingari sono emersi, come tanti zombie con le mani protese verso il nostro sacrosanto benessere fatto di portoncini blindati, videotelefonini e suv. Prima stavano rintanati nelle catacombe, forse, poi sono emersi.

O che stessero magari sepolti dai cumuli di spazzatura napoletana di locazione, ma italiana ed europea di provenienza? Interra oggi, interra domani, la monnezza emerge, oh! E magari con essa pure questi rifiuti umani, questi reietti, gente senz’anima e senza Dio, che ruba i bambini biondi a quelli col portoncino blindato e col suv.

Per fortuna da quando il Mensch ha scoperto il fuoco, questo ha risolto tanti problemi pratici: un mucchietto di cenere, pure buono per concimare, ed ecco che l’emergenza sparisce. Si può risommergere. Gli amici di Adolfo l’avevano ben capito, ed infatti il fuoco bruciava giorno e notte nei loro campi di lavoro. Quel lavoro che “rende liberi”. E liberi uscivano infatti in ampie volute di fumo, dai comignoli dei forni.

In quei forni bruciavano anche gli zingari e gli omosessuali, non solo gli ebrei. Ma questo non emerge mai. Quel fuoco purificatore ha purificato e reso innocente ed intoccabile per l’eternità solo un popolo, quasi fosse una questione privata e non l’aberrazione per eccellenza, quella di considerare che “Dio è con noi”, e contro gli altri. Non abbiamo imparato nulla dell’uomo e degli orrori che può compiere verso i propri simili, scientemente, senza neanche quella giustificazione dell’istinto che hanno gli altri animali.

Emergenze  ‘quelle gravi, piene di pericoli’, dice il Migliorini.

Certo, come anch’io so bene, non è piacevole constatare che dopo un incontro ravvicinato con lo zingarello ti manca il portafogli, e qualche volta col rodimento di culo che ti ritrovi tendi pure a dimenticare che quel ragazzino dovrebbe stare a scuola, e che non ti è venuto in mente di avvertire la polizia se non quando hai notato che veniva tolto a te il portafogli, mentre a lui veniva rubato il futuro.

Però parlando di sicurezza  mi sento molto più insicura ora a girare per strada nel timore che le mie gonne stile gitano incorrano nel “sospetto” di quei retti vigilantes della vera italianità, fatta di uomini timorati di Dio che non stuprano le donne, non investono i bambini, non ruberebbero nemmeno una caramella.

Nel giro di pochi giorni, la mia città ha sperimentato un raid ad un negozio gestito da immigrati regolari, un’aggressione ad un giovane dee-jay gay reo di essere tale, infine una spedizione punitiva neo-fascista ai danni di un gruppo di ragazzi che all’Università stavano attacchinando sui manifesti del convegno di Forza Nuova sulle Foibe, che il rettore Frati ha avuto il buon senso di annullare. Senza contare l’episodio di Verona. Mi domando se ce ne sia abbastanza per proclamare lo “stato d’emergenza“, l”emergenza grave, piena di pericoli’. Ah, no, giusto! Questi sono solo dei delinquenti isolati, dei pazzi senza appigli e senza ideologia, dei ragazzacci viziati.

Certe emergenze davvero non emergono mai. Stanno lì come un boccone indigesto che ti dà nausea costante, tanto che vorresti ficcarti due dita in gola e farlo emergere davvero, una volta per tutte, e scaricarlo nel cesso per non vederlo mai più.

Avete mai fatto caso a quanto è liberatorio?

disegno di un bambino di Ponticelli

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Foto: disegni di bambini di Ponticelli.

p.s. Rileggendo un pezzo di Coccoina di cui avevo avuto un’anteprima per e-mail, mi accorgo che la stesura del mio ne è stata influenzata. Siccome Coccoina è Coccoina, con le sue immagini nitide e spietate che mettono a nudo la natura umana, così che potreste non piacervi più voi stessi, vi invito vivamente a leggerlo e a riflettere.

Il Babelfish

La Guida Galattica per Autostoppisti è il titolo del primo libro di una geniale ed esilarante “trilogia in cinque parti” di Douglas Adams. Dall’opera è stato tratto anche un film (locandina), piuttosto ben riuscito, ma che non eguaglia, a mio parere, l’irresistibile humour dell’autore. Il libro, a sua volta, nasce da una serie di fortunate trasmissioni radiofoniche di Adams sulla BBC.

Nella finzione romanzesca, la Guida Galattica è un’enciclopedia elettronica scritta a più mani (come l’idea alla base di Wikipedia) ed in cui si può trovare tutto ciò che c’è bisogno di sapere nel caso si facesse autostop per l’universo. Basta aprirla e pronunciare il nome dell’argomento su cui si ricercano informazioni. Sulla copertina della guida c’è scritto “Don’t panic!”

ll protagonista del libro, Arthur Dent – un uomo la cui disgrazia di aver avuto la casa abbattuta dalle ruspe per far posto ad una tangenziale è nulla in confronto al fatto che un minuto dopo è stata la Terra stessa a subire la stessa sorte per far spazio ad un’autostrada intergalattica – si trova momentaneamente a bordo di una nave Vogon (creature che non vi piacerebbero) come clandestino con l’amico Ford Prefect, che Arthur ha appena scoperto essere originario di Beetlejeuse e uno degli autori della Guida, in trasferta sulla Terra per scriverne la relativa pagina. Arthur ode suoni incomprensibili, e si ritrova qualcosa di viscido nell’orecchio.

– Ford? – disse.

– Sì?

– Cosa ci fa quel pesce nel mio orecchio?

– Fa l’interprete. E’ un pesce Babele. Se vuoi, puoi consultare il libro.

[…]

– Il pesce Babele – disse con la sua voce pacata la Guida Galattica – è piccolo, giallo, simile ad una sanguisuga, ed è probabilmente la cosa più strana dell’universo. Si nutre dell’energia delle onde cerebrali, ma non delle onde cerebrali della persona nella quale si trova, bensì di quelle delle persone che si trova intorno. Assorbe tutte le frequenze mentali inconsce di tale energia, e si alimenta così. Quindi il pesce Babele, defecando nella mente della persona che lo ospita, espelle una matrice telepatica formata dalla combinazione delle frequenze del pensiero conscio e dei segnali nervosi raccolti dai centri del linguaggio del cervello che le ha fornite. Il risultato pratico di tutto questo è che se vi ficcate un pesce Babele in un orecchio, immediatamente capirete qualsiasi cosa vi si dica in qualsivoglia lingua. La struttura del linguaggio che ascoltate viene decifrata attraverso la matrice dell’onda cerebrale che è stata immessa nella vostra mente dal pesce Babele.

“Ora, è così bizzarramente improbabile che una cosa straordinariamente utile come il pesce Babele si sia evoluta per puro caso, che alcuni pensatori sono arrivati a vedere in ciò la prova finale e lampante della non-esistenza di Dio.

“Le loro argomentazioni seguono pressappoco questo schema: ‘Mi rifiuto di dimostrare che esisto’ dice Dio ‘perché la dimostrazione è una negazione della fede, e senza la fede io non sono niente’.

“‘Ma’ dice l’Uomo ‘il pesce Babele è una chiara dimostrazione della Tua esistenza, no? Non avrebbe mai potuto evolversi per puro caso. Esso dimostra che Tu esisti, e dunque, grazie a questa dimostrazione, Tu, per via di quanto Tu stesso asserisci a proposito delle dimostrazioni, non esisti. Q.E.D., Quod Erat Demonstrandum.’

“‘Povero me!’ dice Dio. ‘Non ci avevo pensato!’ e sparisce immediatamente in una nuvoletta di logica.

“‘Oh, com’è stato facile!’ dice l’Uomo, e , per fare il bis, passa a dimostrare che il nero è bianco, per poi finire ucciso sul primo attraversamento pedonale che successivamente incontra.

“La maggior parte dei teologi più stimati afferma che tali argometni sono questioni di lana caprina, ma questo non ha impedito a Oolon Colluphid di farsi una piccola fortuna usandole come leitmotiv del suo best seller, Cucù! Be’, dov’è andato a finire Dio?

“Nel frattempo il povero pesce Babele, avendo eliminato le barriere che impedivano alle varie razze e civiltà di comunicare tra loro, ha provocato più guerre sanguinose di qualsiasi altra cosa nella storia della creazione.”

(fonte immagine: http://innovariblog.splinder.com/… andate a fargli visita che è davvero un blog interessante)

n.b.

Yahoo ha creato un’applicazione dal nome Babelfish, ovviamente un traduttore istantaneo: fa talmente schifo che provarla deve essere un sollievo per tutti gli individui di fede… ad anche per alcuni linguisti che temono di restare disoccupati (oops, lo sono già!) e che per di più piuttosto che farsi cacare nell’orecchio da un pesce, per poliglotta che sia, preferiscono studiarsi le lingue. Che sono pure divertenti…  🙂

Un po’ di pubblicità – 2

Ogni tanto – come già accaduto e come ancora accadrà – mi lancio in qualche campagna pubblicitaria per blog o siti amici che meritano. Questo (cliccate sul logo) nasce ufficialmente oggi, su idea dell’amica Twiga, e sotto la capace amministrazione di MaoBao.

Era prevista anche la mia collaborazione, ma per ora qualche difficoltà tecnica mi ha scoraggiato, senza contare una certa qual paura di sdoppiarmi (o triplicarmi, quadruplicarmi…. già da sola con me stessa c’ho i miei problemi!) e di diventare un avatar anziché una donna in carne ed ossa. Ma non so se riuscirò a resistere all’entusiasmo contagioso di queste persone intelligenti (quasi 20 blogger!) e che mi auguro diano vita ad un luogo di resistenza culturale. Cinque anni sono lunghi da passare… almeno rompiamo un po’ le balle!

Buona fortuna amici! Ci si vede di là!

Volonté ed i suoi privilegi semantici

Impazzano le polemiche per il rifiuto della Carfagna di… come dite? No, non di stare a cosce chiuse, ma di patrocinare il gay pride.

…Ma certo che la Carfagna è ministro per le pari opportunità, credetemi! L’hanno scelta dal paginone di Giugno di Max, dopo uno snervante testa a testa con la Chiabotto, cui è toccato accontentarsi della conduzione di real tv.

[fonte foto a fianco]

Si diceva, insomma, che ognuno vuole dire la sua sulla questione, che è scottante non tanto per il rifiuto in sé (ci fu un bel braccio di ferro anche col centrosinistra papalino), quanto per le esternazioni della Carfagna, secondo la quale “non è necessario”, e questo perché, in base ad una statistica fondata su delle chiacchiere scambiate con un paio di amici suoi (Dolce e Gabbana?) e accompagnate da svariati Martini on the rocks, è convinta che i gay non siano affatto discriminati.

Anzi! – rincara la dose Luca Volonté dell’UDC (N.b.: l’espressione idiota non è stata ottenuta con Photoshop)

(sì, l’UDC, quel partito per la famiglia cui appartiene tutt’ora il deputato Mele che quasi uccise a cocaina una delle due mignotte pagate coi nostri soldi in un albergo romano, e sempre quel partito cui appartiene anche l’onorevole Cesa, che parlò a tal riguardo della necessità di un “ricongiungimento familiare” per i deputati)

 

“anzi, è la la sinistra gay che chiama diritti i propri privilegi discriminatori verso le famiglie e gli eterosessuali”.

 

La “sinistra gay”! 😀 Già sugli orientamenti sessuali di un (fu) partito ci sarebbe molto da ridire. Ma è come rubare le caramelle ad un bambino. Passiamo oltre.

Gli faccio un po’ le pulci come piace a me, ma sempre con l’aiuto dei miei amici dizionari, eh?

privilegio: voce dotta, lat. PRIVILEGIU(M) “legge eccezionale”, cioè che riguarda una singola persona [o categoria, nota di ska], comp. di PRIVUS “singolo”, “isolato”, e un derivato di lex, legis (legge).

Quindi il privilegio è l’eccezione che conferma la legge, che evidentemente non è uguale per tutti. Esempi di privilegi:

  • immunità parlamentare
  • pensione dopo 3 anni
  • biglietti pagati al cinema, allo stadio, al teatro, ecc.
  • viaggi pagati per sé e famiglia
  • possibilità per un privato di tenere tre tv nonostante esista una sentenza della Corte Costituzionale che gli imponga di cedere una delle frequenze ad Europa 7
  • blablabla… (scusate, non lo so se lo spazio su WP è illimitato…)

Attenzione, però: sono privilegi anche questi:

  • pensione di reversibilità dopo la morte del coniuge
  • possibilità di visitare il proprio coniuge sul letto di morte
  • possibilità di subentrare al coniuge deceduto in un contratto d’affitto

Quindi, fatte salve le libertà individuali, quale quella di amare chi si vuole pur se dello stesso sesso, lo Stato non riconosce agli omosessuali, cittadini che pagano le tasse come gli altri, il diritto di unirsi civilmente in matrimonio come gli eterosessuali. Si dice che ai diritti corrispondano i doveri e viceversa, ma in questo caso, ad uguali doveri da parte dei gay, non corrispondono uguali diritti.

Potremmo definire discriminazione e privilegio come le realtà che si delineano laddove l’equilibrio di diritti e doveri viene spostato rispettivamente nel senso del dovere o del diritto. Sono dunque discriminati coloro che hanno più doveri che diritti, e viceversa privilegiati coloro che hanno più diritti che doveri.

Torniamo a Topo Gigio Volonté (lo stesso – proseguono i ricordi – che voleva istituire il reato di “apologia di comunismo”, al grido di “li staneremo tutti!”): leggo e rileggo la sua perla di saggezza, ma la semantica non mi viene in aiuto, nonostante tutto il sudore buttato su libri e dizionari: appurato che i privilegi, discriminanti di per sé, perché differenziano (lat. DISCRIMEN da DISCERNERE) dalla media, e che sono in tutto e per tutto diritti “speciali” sanciti dalla legge (in caso contrario si chiamerebbero abusi)… quali saranno i privilegi degli omosessuali, che discrimenerebbero le famiglie e le coppie etero?

Penso a famiglie rette, madre e padre con denti sanissimi, bimbi biondi ariani, perplesse di fronte alla scelta fra 5 film di Almodovar in un cinema multisala; penso a coppie etero cacciate dai concerti di Mina; penso al numero identificativo della tessera ARCIGAY da inserire per accedere ai video dei Village People; penso a giovani sposini costretti a ballare YMCA nel chiuso dei loro appartamenti insonorizzati e con le tapparelle chiuse.

Mah… l’unico privilegio che mi viene in mente è l’assenza dei preti al gay pride piuttosto che al family day.

W l’amore e la gioia di vivere e di mostrarlo al mondo! E viva la voglia di festeggiare, che non è “esibizionismo”!

 

La lingua di Tlön del divino Borges

Nella congetturale Ursprache di Tlön, da cui procedono le lingue e i dialetti “attuali”, non esistono sostantivi; esistono verbi impersonali, qualificati da suffissi (o prefissi) monosillabici con valore avverbiale. Per esempio: non c’è una parola che corrisponda alla nostra parola luna, ma c’è un verbo che sarebbe da noi luneggiare o allunare. Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö, cioè, nell’ordine: verso su (upward) dietro semprefluire luneggiò. (Xul Solar traduce brevemente: hop, dietro perscorrere lunò, Upward, behind the onstreaming, it mooned).

L’anzidetto si riferisce agli idiomi dell’emisfero australe. In quelli dell’emisfero boreale (sulla cui Ursprache l'”undicesimo volume” dà pochissime indicazioni) la cellula primordiale non è il verbo, ma l’aggettivo monosillabico. Il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi. Non si dice luna: si dice aereo-chiaro sopra scuro-rotondo, o aranciato-tenue-dell’altoceleste, o qualsiasi altro aggregato. In questo caso particolare, la massa degli aggettivi corrisponde a un oggetto reale; ma si tratta, appunto, di un caso particolare. Nella letteratura di questo emisfero (come nell’universo sussistente di Meinong) abbondano gli oggetti ideali, convocati e disciolti in un istante secondo le necessità poetiche. Determina questi oggetti, a volte, la mera simultaneità; alcuni si compongono di due termini, uno di carattere visivo e uno di carattere uditivo: il colore del giorno nascente e il grido remoto di un uccello; altri di più termini: il sole e l’acqua contro il petto del nuotatore, il vago rosa tremulo che si vede con gli occhi chiusi, la sensazione di chi si lascia portare da un fiume e, nello stesso tempo, dal sogno. Questi oggetti di secondo grado possono combinarsi con altri; il processo, grazie a certe abbreviazioni, è praticamente infinito. Vi sono poemi famosi composti d’una sola enorme parola. Questa parola corrisponde a un solo oggetto, l’oggetto poetico creato dall’autore. Dal fatto che nessuno crede alla realtà dei sostantivi nasce, paradossalmente, che il numero di questi ultimi è interminabile. Gli idiomi dell’emisfero boreale di Tlön possiedono tutti i numeri delle lingue indoeuropee, e molti altri.

Da “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, in”Finzioni” di Jorge Luis Borges, Einaudi, Torino 1955 e 1995

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A proposito di neologismi, licenze poetiche, e affini, mi è venuto in mente il “divino” Borges. Divino perché – come ebbe a dire l’amico Equo – creatore di mondi.

La raccolta di racconti intitolata “Finzioni” si apre col racconto su “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius“, e del mondo immaginario di Tlön vengono descritte la concezione dell’universo, la religione, la filosofia, la geometria, l’archeologia, e ovviamente anche la lingua. Tutte in modo assolutamente e divinamente surreale.

E surreale, ancorché superbamente affascinante, è la lingua immaginata da Borges, che è impossibile. Va premesso che il racconto è una critica all’idealismo di Berkeley, che – secondo Kant – arrivava quasi a negare la realtà oggettiva. Per non dilatare eccessivamente l’argomento, vi rimando per le tematiche filosofiche alla relativa pagina di Wikipedia, mentre qui basterà “fare un po’ le pulci” al passo su riportato per coglierne l’assurdità (voluta).

Nella congetturale Ursprache di Tlön, da cui procedono le lingue e i dialetti “attuali”, non esistono sostantivi.

Già qui il linguista salta sulla sedia. E’ evidente che il sostantivo, forse la parte del discorso più “materiale”, è il nucleo di ogni sistema linguistico. Il bimbo stesso che impara a parlare denomina prima gli oggetti, poi impara le qualità degli stessi (aggettivi), infine comincia a “far muovere” gli oggetti denominati, a farli agire (verbi). Ma d’altra parte su Tlön gli oggetti non esistono, se non in quanto possano venire percepiti (Berkeley: esse est percepi, “essere è venir percepiti”).

 [N.B. Ursprache significa “lingua primordiale”, vale a dire la lingua madre da cui discenderebbero tutte le lingue oggi conosciute. Durante il Medioevo ci si è affannati a cercare tale lingua madre (spesso identificata con l’aramaico) e a ricollegarla a tematiche religiose, e al racconto della torre di Babele. 

 

L’esistenza di una lingua primordiale può solo essere congetturata, ma è scientificamente irrecuperabile. Dal confronto delle lingue oggi esistenti, e di quelle morte ma documentate, non si può che risalire ad un livello ultimo che nel nostro caso corrisponde all’indoeuropeo. Ma la scientificità dello studio vieta di confrontare – a scopo di ricostruzione – lingue già ricostruite, quali ad esempio l’indoeuropeo.]

Per esempio: non c’è una parola che corrisponda alla nostra parola luna, ma c’è un verbo che sarebbe da noi luneggiare o allunare.

Luneggiare e allunare sono verbi denominali, che si formano cioè a partire da un nome: in questo caso, luna.

Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö,

Un traduttore di Borges osserva che la frase in tlönese suona quasi come una risata alla faccia di Berkeley. Laddove noi, per rendere il suono del riso, scriviamo ahaha, gli ispano-ablanti usano invce jajaja, e la x è omofona di j, da leggersi un po’ come – chiedo venia – uno scatarro.

In quelli dell’emisfero boreale […] il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi. Non si dice luna: si dice aereo-chiaro sopra scuro-rotondo, o aranciato-tenue-dell’altoceleste, o qualsiasi altro aggregato.

Tre considerazioni:

  • L’aggettivo è necessariamente qualcosa che completa, specifica il nome. L’etimologia stessa del termine è trasparente, a tal proposito: ADIECTIVUS da ADIICERE, cioè “aggiungere”;
  • E’ vero che un aggettivo può essere sostantivato, divenire nome, come si dice, per antonomasia: la stessa parola “luna” viene da una antica radice indo-europea da cui discende anche luce: *luk-na, vale a dire “la luminosa”. Ma quando il processo è completato, la funzione aggettivale non viene più percepita, e la parola diviene sostantivo a tutti gli effetti, il “cartellino identificativo” dell’oggetto.
  • Nell’esempio stesso che viene riportato, abbiamo almeno tre aggettivi che non possono prescindere dal nome da cui provengono: aereo (dal greco aer, “aria”), aranciato (da arancia, ovviamente), e celeste (da cielo, il quale a sua volta, nella notte dei tempi, fu sostantivizzazione di una radice aggettivale dal significato di “cavo, concavo”).

L’ultima considerazione è di carattere funzionale: riuscite ad immaginare una lingua in cui ogni oggetto, in sé irripetibile, sia contrasseganto da una serie ugualmente irripetibile di aggettivi? Una sedia è una sedia? No, ogni sedia è un oggetto a sé, ed in quanto tale verrebbe designata da una serie di aggettivi sempre diversi. Invero, ogni lingua naturale è necessariamente un’astrazione e richiede semplificazione di pensiero, come ha voluto mostrare in modo esemplare Magritte, portando il ragionamento alle estreme conclusioni:

La parole è necessariamente un simbolo, la rappresentazione di un oggetto “ideale” che noi, in questo esempio, chiamiamo “sedia”, comprendendo immediatamente di cosa si parla a prescindere dalle diverse qualità che ogni sedia può avere. Il quadro di Magritte è un sunto pittorico della teoria dell’arbitrarietà del segno di Saussurre: così come il soggetto del dipinto “non è una pipa” perché non si può riempire di tabacco e fumare, allo stesso modo la parola “pipa” evoca in noi l’immagine di questo oggetto atto a fumare il tabacco, sebbene in un’altra lingua possa chiamarsi in tutt’altra maniera.

La lingua è una convenzione, il cui scopo primario è di permettere la comunicazione.

Da ciò consegue che la serie aggettivale non potrebbe mai sostituire un sostantivo, anche perché il numero degli aggettivi sarebbe talmente grande da tradire la “funzione economica” del linguaggio, vale a dire, in soldoni, la capacità di capirsi l’un l’altro combinando un numero relativamente limitato di elementi. Si prenda il caso di “aereo“, che è di per sé un’abbreviaizone di aereomobile (così come auto lo è di automobile): si tratta della semplificazione di un aggettivo sostantivato composto: una volta concluso il processo, aereo può dare origine ad altri composti quali aereostazione, aeroporto, ecc.

E d’altronde, anche l’aggettivo è in sé irripetibile e convenzionale: cosa vuol dire “celeste”? Del colore del cielo, sì. Ma al tramonto? All’alba? D’estate? D’inverno? Al polo o all’Equatore? ecc… Se il linguaggio non fosse convenzionale, avremmo infiniti modi di dire anche “celeste”.

La conseguenza di un tale assurdo linguaggio è esemplata da Borges con il tocco da maestro che chiude il passo:

Dal fatto che nessuno crede alla realtà dei sostantivi nasce, paradossalmente, che il numero di questi ultimi è interminabile.

Il cerchio si è chiuso.

Borges ha avuto ragione del suo avversario: accogliendo per un attimo le idee di Berkeley, le ha smontate alla radice, pezzo per pezzo, fino al paradosso finale. E però, mentre si faceva un viaggetto nell’idealismo di Berkeley, anche lui ha sognato – e noi con lui – un mondo fatto di pura poesia, in cui il vago rosa tremulo che si vede con gli occhi chiusi ha una sola espressione. Che è diversa ogni volta che si chiudono gli occhi.

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Che Borges, dal suo aldilà di mondi possibili, mi perdoni per aver massacrato il suo capolavoro!

La conchiglia di tua sorella

Visto che il mio post preferito è quello che ha riscosso meno successo di tutti (come era prevedibile), per mettervi un po’ più a vostro agio, e considerando la predilezione per gli apologhi emersa su queste pagine, ve ne regalo uno molto profondo ed illuminante, che servirà a riflettere sulla natura umana (spesso ben allegorizzata da storielle del mondo animale), ed anche ad alleggerire il peso specifico del post cui esso si ricollega. Buona lettura!

 

La almejita en problemas:
Una pobre almejita es pisada a la orilla del mar por un muchacho,que al verla la escupe, la pobrecita tuvo que salir de su concha y caminar y caminar a la deriva en pleno invierno y muy desprotegida.Luego de 17 horas de caminata se encuentra con otra almeja, se acerca, le golpea la caparazón y la otra almeja abre:
“Hola amiga almejita, tuve un problema, un muchacho me piso y no tengo donde vivir, podríamos compartir tu sitio?”
“No, ni en pedo, salí de acá loca!”
La pobre almeja siguió su rumbo y se encontró con otra almeja amiga, golpeo, la otra almeja abrió:
“Hola amiga almejita, tuve un problema, un muchacho me piso y no tengo donde vivir?,podríamos compartir tu sitio?”
“No me jodas que estoy cagada de frío, andate!”
La pobre almejita siguió y siguió hasta que se encontró con su hermana:
“Hola hermanita, un muchacho me piso, puedo vivir contigo?”
“Si, como no, pasa.”
MORALEJA…Cuando tengas un problema andate a la concha de tu hermana.

 Fonte: questa

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Traduzione italiana:

La conchiglietta nei guai:

Una povera conchiglietta viene calpestata sulla riva del mare da un bambino, che quando se ne accorge la tira fuori. La poveretta dovette uscire dalla sua conchiglia e camminare, camminare alla deriva in pieno inverno e senza alcuna protezione. Dopo 17 ore di cammino incontra un’altra conchiglia, si avvicina, le dà due colpi sul guscio e l’altra conchiglia apre:

“Ciao amica conchiglietta, c’è stato un problema: un ragazzino mi ha pestato e non ho dove vivere, potremmo condividere il tuo spazio?

“No, non se ne parla nemmeno, vattene, pazza!”

La povera conchiglietta continuò il suo giro e s’imbatté in un’altra conchiglia, bussò, l’altra conchiglia aprì:

“Ciao amica conchiglietta, c’è stato un problema: un ragazzino mi ha pestato e non ho dove vivere, potremmo condividere il tuo spazio?”

“Ma non rompermi le palle, che mi sto cagando sotto dal freddo! Vattene!”

“La povera conchiglietta camminò e camminò finché s’imbatté in sua sorella:

“Ciao, sorellina, un bambino mi ha pestata, posso vivere con te?”

“Certo, come no, vieni!”

MORALE DELLA FAVOLA: … Quando hai un problema, vai alla conchiglia di tua sorella [Traduzione “equivalente”: “Vattela a pia’ ‘nder culo!”]

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Non l’avete capita? E’ perché dovevate leggere l’altro post, lavativi! 😀

Se vi siete fatti quattro risate, vi rimando ad un’altro bellissimo apologo, non meno godibile ma molto, molto più serio ed importante, che trovate qui. Aribuona lettura!

Evoluzione di uno slogan

 

In principio fu Barack Obama, testimonial del sogno americano, per la speranza che in America qualcosa stia cambiando, che un nero possa divenire presidente, e quindi la gente afro-americana possa essere maggiormente rappresentata, e non solo chiamata alle urne quando può fare la differenza. 

Lo “Yes we can di Obama si veste degli echi lontani di “I have a dream“. Sarà la storia a dirci se il paragone è fondato o meno.

Walter ascoltò l’inno e vide che era cosa buona. 

Wartere è amico dell’ammericani… forti st’ammericani! George Clooney, Russel Crowe, Il Gladiatore, Indipendence day, Rambo… sì, lo stile americano è vincente: l’eroe solitario che lotta contro il mondo, che corre da solo…. allora: Yes, we (also) can!

… o forse no? Magari l’americano è indigesto agli italiani. Gli italiani preferiscono i maccaroni. Allora “yes we can” lo damo ar gatto, come er latte, e “yes we can” diventa “si può fare!”

Epilogo: 14 maggio 2008. Dopo ripetuti scambi di cortesie, reciproci riconoscimenti, difese bipartisan dell’intoccabilissimo presidente del Senato, ormai è pace fatta (ma quando mai c’è stata guerra?). Trionfo dell’armonia: l’antipatico “yes we can” ha compiuto la sua evoluzione, ammantandosi della forma dell’ inciucio alla romana, consumato a Montecitorio: SE PO’ FFA’!

Godi, popolo! Oramai è pax romana! La guerra civile è finita. Deponi le angosce per il futuro, vai pure al circo a vedere i Gladiatori, hai visto mai che i compagni di Spartacotti all’ultima giornata dovessero spuntarla e dare il benservito ai gladiatori extracomunitari nerazzurri di Mediolanum?

Buonanotte, popolo, dormi tranquillo, pacatamente, che a li zingari ce pensamo noi.

 

 

Skakkina vista da Coccoina

Questo l’omaggio cavallerescamente offertomi da Coccoina. Si chiama “skakkina vola via” (a bordo del suo principe azzurro!). 🙂

Ringrazio per l’assistenza tecnica l’amica Twiga, che ospita sulle sue pagine anche gli scritti di Coccoina. Qui potete trovare altri omaggi del Coccopicasso, detto anche Kokkoinsky da MaoBao, ma – perché no? – anche un po’ Coccomiró.

Molto onorata.

(Inchinandomi)

Grazie Coccoina!

 

portulaca/porcacchia: un delirio botanico-linguistico… e non solo!

Per il secondo anno, senza invito, questa signora si affaccia nei miei vasi:

A bocca aperta, ancora stile Marcovaldo e la natura in città (ma ormai la città è solo nella mia testa), resto ammirata prima dalle foglie aghiformi tipo rosmarino, ma grasse, e poi dai primi germogli di fiori, e il mio stupore aumenta quando comincio a notare che la stessa pianta fa fiori di molti colori diversi. Chissà quanto tempo dovrà passare, quanta disintossicazione ci vuole, per smetterla di meravigliarsi di fronte alle iniziative della natura, del fatto che cresca qualcosa che tu, uomo – o meglio, Mensch – non hai piantato.

Incuriosita, chiedo ad un mio amico, che ha un vivaio, che tipo di pianta sia, e lui, dopo la mia descrizione, dice “potrebbe essere Portulaca….” poi ci ripensa e aggiunge “O forse porcacchia.” E Io “Come, porcacchia?” e lui “Sì, la varietà selvatica della portulaca!”.

Interessante! E dire che l’ho buttata dentro la mia tesi, la portulaca/porcacchia, senza sapere che già stava germogliando nei miei vasi. Fu infatti un’abitudine del latino tardo, protovolgare, quello di attribuire significati diversi a diverse varianti della stessa parola. Queste varianti si dicono, in linguistica, allotropi, ovvero “modi diversi”, parole dello stesso etimo ma di forma differente in considerazione della loro diversa trafila di derivazione, dotta o popolare. Alcune di loro sopravvivono fianco a fianco nello stesso repertorio linguistico, con diversi significati, senza che il parlante riesca a percepirne la parentela: desco e disco (DISCUM), vezzo e vizio (VITIUM). Gli ultimi due accostamenti hanno una particolarità interessante: i primi termini delle due coppie hanno avuto originariamente derivazione “popolare” (cosa che si evince dalle trasformazione fonetiche, tipiche della derivazione spontanea del parlato) e i secondi derivazione “dotta”, con una forma più vicina al latino. Ma con il passare dei secoli i gradi di familiarità d’uso si sono invertiti. Desco con il significato di tavolo, da popolare che era, suona ora affettato, arcaico e poetico, mentre disco è divenuto popolare a causa del “ripescamento” del termine per indicare i vecchi LP; anche vezzo è senz’altro meno usato di vizio, il quale è probabilmente divenuto piuttosto popolare per l’uso fattone negli scritti biblici.

Ma torniamo alla nostra portulaca o porcacchia. Risulta vano ogni mio tentativo di scoprire, in rete, quale sia l’aspetto della portulaca selvatica rispetto a quella… ufficiale. In realtà google dà diversi risultati  per portulaca, uno dei quali è quello qui sopra. Alcuni siti si limitano ad osservare che essa viene indicata anche come porcacchia, probabilmente per via del fatto che è pianta molto amata anche dai porci (ma non solo: pare che sia  molto buona nell’insalata… devo provare!). Se a livello botanico non ne vengo a capo, provo almeno ad avanzare un’ipotesi linguistica:

Dal latino standard PORTULACA si è avuto PORTLACA

(con sincope, o caduta, della U breve in posizione atona),

e di qui PORCLACA

(con TL > CL, passaggio molto frequente nel latino arcaico, e che si riaffaccia nel latino volgare: è quel che è successo con POTULUM > POTLUM > POCLUM “tazza”; si noti infatti che la radice POT– di  POTARE “bere” è presente in “potabile”),

e di qui PORCACLA, per metatesi

(cioè “scambio”, come il “Ploretariato” di Coccoina per “Proletariato”),

da cui “porcacchia” (si confronti SPECULUM > SPECLUM > specchio).

Questo è quello che ho buttato in una nota della tesi. (Ricordo però che questa è solo una delle possibili ipotesi). Come è stato possibile giungere a una parola così diversa? Sono due le ragioni preponderanti:

  • In virtù di una predilezione latino-volgare per il suffisso -C(U)LUS, -C(U)LA, -C(U)LUM, che formava diminutivi. I diminutivi sono molto amati dallla lingua parlata, familiare, affettiva. E da essi discendono parole “ufficiali” della nostra lingua, che noi neanche sentiamo come diminutivi. Ad esempio MASC(U)LUS (maschietto) invece di MAS, da cui poi “maschio” (anche l’inglese “male”); VET(U)LUS invece di VETUS, da cui VETLUS > VECLUS > “vecchio”, e così via. Il processo era così diffuso e spontaneo, che il suffisso -CLUS (> -cchio) divenne produttivo, e le parole venivano “rimodellate” (stile pongo) per raggiungerlo.
  • Per un’associazione popolare, detta anche paretimologia, con il maiale, porco.

 

Le due cause sono congiunte: un processo fonetico possibile, viene agevolato da un collegamento psicologico spontaneo fra la pianta e il porco che la mangia.

D’altronde, scavando scavando, si vede che lo stesso è successo con un’altra parola che – udite, udite! – costituisce una terza variante del nome della pianta misteriosa: “porcellana“. Ebbene sì, la stessa parola in uso per la ceramica, designa anche la pianta, e sempre in virtù del collegamento con “porco”.

Così il DELI (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, di Cortelazzo-Zolli):

  • porcellana (1): “o dalla forma di porcello della conchiglia, o dalla somiglianza della fessura della conchiglia colla natura della porcella. Le porcellane, ceramiche importate in principio dalla Cina, ebbero il nome dalle porcellane, conchiglie cui quelle rassomigliavano” (il DELI cita qui da un articolo di G. Alessio, “Polo volgare”). L’uso comincia con Marco Polo “Spendono per moneta porcellane bianche, che si truovano nel mare, e che se ne fanno le scodelle”.
  • porcellana (2): Lat. parl. *PORCILLANA(M), per il class. PORCILLACA(M), da avvicinare a PORTULACA.

Ed ecco a voi dei semi di Portulaca Oleracea (che non so se sia la mia):

A forma di conchiglia! 🙂 Scrive infatti il dizionario etimologico online che

questa voce venne usata nel Medioevo per designare una conchiglia tigrata o conchiglia di Venere “concha Veneris” così detta per una certa somiglianza di forma, da PORCUS o PORCA (mediante il diminutivo PORCELLA), la “vulva della troia”

[sic!]

Ora: condividete almeno un pochettino del mio stupore divertito se vi dico che un insulto spagnolo piuttosto volgare è “la concha de tu hermana” (traduzione: a fregn’e soreta) ? 😀

Hai voglia a cercare la logica del linguaggio, a mettere etichette, regole ed argini… sta tutto nella nostra testa, insondabile ed irrazionale come i pensieri che vi si affollano. E gira che ti rigira torniamo sempre allo stupore del bambino che vede somiglianze con oggetti ed animali più comuni e familiari, e riesce a trovare la connessione fra una pianta, una ceramica, una conchiglia, un maiale e… una vulva!

Ok, magari quest’ultima è più presente nella mente del bambino adulto…

 

Verba volant, scripta manent… o no?

Rubo spudoratamente una riflessione di Elena.

Se un giornalista scrive in un libro che colui che attualmente ricopre la seconda carica dello Stato ha avuto contatti mai spiegati con dei mafiosi, non succede nulla. Ma se va a dirlo in tv in una trasmissione in prima serata, molto seguita, rischia il linciaggio (rigorosamente bipartisan) e l’esilio televisivo.

E’ forse cambiato qualcosa dai tempi dai tempi di “verba volant“? E dire che ai tempi in cui questo detto era in voga, non erano in molti a saper leggere.