Senni che filano via

Una delle prime cose che ho imparato al corso di tedesco, tanti anni, fa, da quel fricchettone del mio insegnante, Herr Senf, è che Spinner significava “il matto”: Ce lo spiegò nel suo solito modo originale da comune hippye anni ’70, facendoci ascoltare Der Spinner, di Nina Hagen. Aggiunse che die Spinne, al femminile, significava invece “il ragno”, e ricordo che mi interrogai a lungo sulla connessione tra le due cose: semplice omonimia accidentale? Perché un ragno dovrebbe essere folle? O un folle avere qualcosa di aracnide?

In casi come questi, è più utile cercare il tratto comune da cui entrambi i termini possano discendere, seguendo poi sviluppi semantici indipendenti: spinnen, spann, gesponnen, significa “filare”, “tessere”, cioè l’attività del ragno, ma primariamente significa “far ruotare, avvitare, girare”. Quindi spinnen , tessere, è far ruotare una spola, e per estensione il tessere del ragno. E’ interessante notare, a questo punto, che il gesto dei tedeschi per indicare la pazzia è diverso dal nsotro: laddove noi picchettiamo il dito indice sulla tempia, loro lo tengono alzato verso l’alto, sempre all’altezza della tempia, e con esso descrivono un movimento a spirale ascendente. SI tratta di un gesto del tutto simile a quello con cui noi indichiamo la dipartita di qualcuno, l’anima che si invola verso il cielo. Solo che in questo caso a volarsene via non è la vita, ma il senno. E se l’Orlando Furioso l’avesse scritto Goethe anziché Ariosto, Astolfo sarebbe andato a riprendere il senno di Orlando a cavallo di un ipporagno.

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In tedesco, il genere del nome “ragno” è femminile, così come era femminile il personaggio mitologico da cui il ragno prende nome, Aracne. Dante usa appunto il femminile “ragna”:

Dante Alighieri (Purgatorio, XII, 43-45):
O folle Aragne, sì vedea io te
Già mezza ragna, trista in su li stracci
De l’opera che mal per te si fé
.

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Aracne, straordinaria tessitrice della Lidia, mutata in insetto da Atena per la sua superbia di averla sfidata e vinta nell’arte della tessitura:

Ovidio, Metamorfosi, libro VI:

Ma la bionda dea guerriera si dolse del successo,

fece a brandelli la tela che illustrava i misfatti degli dei

e, con in mano la spola fatta col legno del monte Citoro,

più volte in fronte colpì Aracne, figlia di Idmone.

La sventurata non lo resse e fuor di senno corse a cingersi

il collo in un cappio: vedendola pendere n’ebbe pietà Pallade

e la sorresse dicendo: “Vivi, vivi, ma appesa come sei,

sfrontata, e perché tu non abbia miglior futuro, la stessa pena

sarà comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti”.

Poi, prima d’andarsene, l’asperge col succo d’erbe

infernali, e al contatto di quel malefico filtro

in un lampo le cadono i capelli e con questi il naso e le orecchie;

la testa si fa minuta e così tutto il corpo s’impicciolisce;

zampe sottili in luogo delle gambe spuntano dai fianchi;

il resto è ventre: ma da questo Aracne emette un filo

e ora, come ragno, torna a tessere la sua tela.

Lacci e frattaglie

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Come NON fare etimologia, ovvero farla per piegare il significato delle parole a ciò che si vuol dire. In “coraggio”, e in tutte le altre parole con la stessa terminazione, il suffisso -aggio non ha alcuna parentela con AGERE (“agire”), bensì è un prestito linguistico dall’area franco-provenzale, quindi di origine poetica, partendo dal latino -AT(I)CU(M) > -prov. -atge (fr. -age).

Di fatto, però, la prima parte della parola è effettivamente composta da “cuore”, dal latino *CORE(M), forma polivalente dei casi obliqui, analogica sul nominativo che in questo caso ha rimpiazzato la forma classica COR, CORDIS, presente in altri derivati, quindi a tutti gli effetti il nostro fantasioso e romantico writer non ha tutti i torti: il coraggio è un’emanazione del cuore, dal che consegue che tutti gli atti che denotino audacia ma non tengano come riferimento il cuore andrebbero descritti con dei sinonimi parziali quali appunto “temerarietà”, “arditezza”, e in alcuni casi perfino crudeltà. Perché spesso alcuni atti temerari nascondono proprio l’assenza di cuore spacciandola come scelta coraggiosa.

La riflessione del tutto casuale su questo graffito visto per caso due sere fa mi ha portato a riflettere su questa radice antichissima (si pensi ad esempio al greco kàrdias) che designa il cuore, e alla sua sopravvivenza nel nostro linguaggio contemporaneo. La forma classica dei casi obliqui, *CORDE(M), è ben trasparente  in “cordiale”, di derivazione dotta come tutti gli aggettivi di relazione, meno in altri casi. Mi chiedevo se anche “corda” fosse etimologicamente legato, e in effetti  pare che la radice indoeuropea *k 0 r(d) sottostia ad entrambi i termini… ma quale può essere il tratto comune a una corda e al cuore? Questa radice nominale indica un piegamento, un avvolgimento, un attorcigliamento di qualcosa: il cuore è avvolto su se stesso, e la corda è composta di fibre avvoltolate le une alle altre. Ma c’è di più: la stessa radice è alla base anche del termine “cervello”, latino CEREBRUM (> *CER(E)BERUL(U)M > *CERBELLU(M) > cervello), da leggere KEREBRUM secondo la pronuncia classica.

Cuore e cervello hanno dunque così tanto in comune da originare dallo stesso antichissimo termine? Forse che la dicotomia fra ragione e sentimento, e il localizzarli in diversi organi, sia un’invenzione tutta moderna? Si tenga presente che il latino disponeva anche del sostantivo MENS, MENTIS, che non è del tutto sinonimo di CEREBRUM, in quanto quest’ultimo indica per l’appunto un organo interno, composto di fibre legate fra di loro, così come il cuore, mentre MENS indica la capacità di astrazione di cui è dotato l’essere umano: come ho detto già qui parlando della minchia, lat. MENTULA, la radice *men/*mon indica qualcosa che sporge, qualcosa di metaforicamente acuto, come la mente, o sporgente in modo fisico, come “monte”, o come la minchia, questo a dimostrazione – se mai ce ne fosse bisogno – di quanto spesso, in alcuni soggetti, mente e cazzo non siano distinguibili l’una dall’altro.

Dunque la mente è una capacità, dicevamo, mentre il cervello non è che una viscera, una frattaglia, così come il cuore… ah, la saggezza del dialetto romanesco di mia nonna, in cui “coratella” indica le viscere, gli organi interni tutti, le frattaglie, gli scarti… Già, gli scarti, quelle cose che non contano, che si buttano, le viscere. Eppure è lì che si annidano le sensazioni, nel cuore che batte, nello stomaco che fa male e si rivolta per alternanza troppo brusca di felicità, tensione, dolore, distacco, nel cervello che pulsa stretto nelle tempie per il troppo ricordare. “Ricordare” vale appunto “riportare nel cuore”, e “scordare”, viceversa, “togliere dal cuore”. Ma qualcosa che si annida nelle viscere è spesso difficile da estirpare, come una metastasi. Sto venendo meno alla mia già scarsa professionalità e imitando il writer fantasioso, mi sto inventando che “dimenticare”, “togliere dalla mente”, non sia un vero sinonimo di “scordare”, o che sia forse più semplice, chi lo sa.

Di certo “andare d’accordo”, “accordarsi”, sono espressioni bellissime che sia passando per il tramite del cuore, sia per quello della corda, indicano legami, o essere in sintonia col cuore, o risuonare assieme. Solo che anche i forti legami vengono meno, perché le corde se troppo tirate si spezzano, allora non si risuona più, ci si scorda come una chitarra, e si scorda.

E lì sì che son cazzi, anzi, MENTULAE.

p.s. Si ringrazia l’ottimo articolo di http://www.bitculturali.it per la conferma al sospetto del legame fra cuore e corde.

Nostalgia

Nel rispondere a Niki, che in un commento ad un mio post lamenta nostalgia, ha preso mentalmente forma questo post, dedicato proprio alla malattia dell’emigrante.

Sebbene, infatti, avessi già notato che in tutte le lingue (e quando dico tutte le lingue penso solo a quelle che conosco io, che sono ben lontane dall’essere “tutte”) il termine è sempre composto da uno che significa “casa”, “ritorno” e uno che significa “dolore”, “malattia”, ho sempre pensato che fosse alquanto poetico, retorico, ricorrere alla nozione di malattia, come a dire che il desiderio di casa può essere così forte da rasentare il patologico.

Invece, guarda un po’, è esattamente al contrario che si sono svolte le cose: “nostalgia” è uno di quei termini che, nati nell’ambito medico, specialistico, si sono stemperati in un’accezione più generica e di uso comune. E’ quanto è accaduto anche a termini come “isterica” (che talvolta viene usato addirittura anche al maschile, nonostante venga dalla radice di “utero”), o “paranoico”, provenienti dall’ambito psichiatrico.

Altra cosa che forse non tutti sanno (anche per me è una scoperta) è che il termine è davvero giovane: risale a poco più di tre secoli fa. La storia vale la pena di essere raccontata: nel 1688 il futuro medico svizzero Johannes Hofer descrisse nella sua tesi di laurea una misconosciuta malattia dalla ben precisa sintomatologia psicofisica, e che sembrava cogliere i militari svizzeri lontani da casa. Hofer l’avrebbe chiamata volentieri Heimweh (che è tuttora uno dei termini in uso in tedesco per “nostalgia”), ma nella tesi, scritta in latino, aveva bisogno di un nome che suonasse più scientifico: così ricorse a un neologismo dal greco, lingua scientifica per eccellenza a causa della sua capacità compositiva,  e che infatti ha fornito alla lingua scientifica internazionale una quantità enorme di termini, tutti relativamente recenti. (Non si può parlare a rigore di “prestiti”, ma di vere e proprie composizioni date da montaggi di parole già esistenti in greco).

Nella tesi di laurea esitò fra nostomania (mania del ritorno), philopatridomania (mania dell’amore per la patria), e nostalgia (dolore del ritorno, da nostòs, “ritorno”, e algìa, “dolore”). Alla fine trionfò quest’ultimo, che comparve nel titolo della tesi. E meno male, ché non me la immagino, la Niki, a dire che sente un pochino di filopatridomania!

Le designazioni più popolari sono: in tedesco Heimweh (“mal di casa”); in francese mal du pays; in inglese homesickness. Ovviamente una lingua che spacca il capello in 4 come il tedesco non poteva accontentarsi, e ha coniato anche Sehnsucht (da Sucht “dipendenza”, “brama” e sehn contrazione di sehen, “vedere”: “voglia di rivedere”): forse che Heimweh sia spaziale e Sehnsucht temporale?

Tutte queste, ad ogni modo, sono inizialmente le varianti popolari del termine medico “nostalgia”, un po’ come – che so- Herpes Zoster si contrappone a fuoco di Sant’Antonio, per dire.

L’Aleardi, ancora nel 1856, nel Monte Circello la chiama “passione dei ritorni” (“e sol talora  – la passione di ritorni addoppia – col domestico suon la cornamusa “). Nel 1874 Carducci intitola “Nostalgia” un suo poemetto che parla dei ricordi della sua Maremma.

Con l’ondata migratoria di fine ‘800, insomma, il termine conosce un’ampia diffusione, ed esce dai trattati medici, nei quali viene rimpiazzata da Schweizer Krankheit, “malattia svizzera”.

Ma è solo con Baudelaire che il termine si libera dell’ancoramento e luoghi e tempi passati assume i contorni vaghi di “nostalgia di qualcosa di vago, sconosciuto”.

Tu connais cette maladie fiévreuse qui s’empare de nous dans les froides misères, cette nostalgie du pays qu’on ignore, cette angoisse de la curiosité?

(Conosci quella febbre malsana che ci assale nel freddo della miseria?, quella nostalgia di un paese mai visto, quell’angoscia della curiosità?)

Ovviamente il tedesco non poteva neanche in questo caso lasciarsi sfuggire l’occasione di creare una parola ad hoc: Fernweh (da fern “lontano” e Weh “dolore”): voglia di visitare paesi lontani, sconosciuti.

Nel frattempo la parola ha avuto in italiano un ulteriore sviluppo, inesorabilmente legato alla storia del nostro paese: nelle espressioni “manifestazioni nostalgiche”, “saluti nostalgici”, “inni nostalgici” è in gioco un particolare tipo di nostalgia, quella del passato regime. Secondo il Migliorini quest’uso è dovuto da una parte alla volontà di evitare l’uso del termine “fascista”, dall’altro per una sorta di compatimento di tali atteggiamenti, visti come legati in modo solo platonico e romantico a un passato che non potrà mai più ripresentarsi.

Buon per il Migliorini essere morto nel ’75 con questa mal riposta convinzione.

Interessante, e di segno opposto, è anche un neologismo tedesco (aridaje!) ottenuto dallo stravolgimento di Nostalgie: si tratta di Ostalgie, cioè la nostalgia dell’Osten, tedesco per “est”, della Repubblica Democratica Tedesca. Non ha molto a che vedere con l’ideologia politica, altrimenti non avrei detto “di segno opposto” solo perché “dall’altra parte”.

Dopo la caduta del muro e la diffusione del capitalismo occidentale, nella Germania dell’est lo stile di vita cambiò forse troppo repentinamente: per molti fu scioccante. Un film davvero meraviglioso che aiuta a comprendere il senso e le conseguenze di un così grande salto è Goodbye Lenin, la storia di una piccola repubblica democratica tedesca ricostruita in un appartamento di 79 mq, ad uso e consumo di una madre caduta in coma prima della caduta del muro e risvegliatasi dopo. Viste le sue delicate condizioni di salute i figli, per non provocarle uno shock, rivoltano i vecchi depositi cittadini per trovare oggetti tipici della DDR con cui rassicurare la madre che nulla è cambiato. A un certo punto sono i figli stessi che si fanno prendere la mano, sono forse loro per primi ad avere bisogno di ricostruire quel mondo definitivamente perduto.

L’Ostalgia è la nostalgia non di un regime, ma di un tempo in cui i bambini attendevano il Sandmaennchen, l’omino della sabbia, trasmesso alle 19.00 in tv, dopodiché tutti a letto. L’ “omino della sabbia” era un’animazione molto ingenua e buonista che insegnava ai bambini alcuni semplici valori della vita. Alla fine di ogni episodio arrivava l’omino con la barbetta a spargere la sua speciale sabbia sugli occhi dei bambini per farli addormentare: per questo i bambini si stropiccerebbero gli occhi quando hanno sonno. 

Il pupazzo Sandmaennchen è divenuto il simbolo della Ostalgie, e ricopre questo ruolo chiave anche nel film, specie in una memorabile scena finale.

L’Ostalgie è il rimpianto di un tempo in cui quando nasceva un bambino la famiglia cominciava a risparmiare per potergli regalare, al compimento dei 18 anni, la ben poco mitica Trabant, che non a caso il TIME ha catalogato fra le 50 peggiori macchine della storia.

[a sinistra: graffito dal muro di Berlino: una Trabant irrompe nella Berlino Ovest

 

 

Ecco, credo che la Ostalgie non abbia nulla a che vedere col comunismo o con un vago francescanesimo, ma più che altro con la voglia di avere lo spazio, il tempo, per poter meglio finalizzare i propri sogni e bisogni. Sapere qual è quel poco davvero necessario per vivere, per essere anziché avere.

Ma a parte tutta la disquisizione storico-etimologica, cos’è che significa più intimamente “nostalgia”? Per alcuni è un sentimento, per altri direi uno stato naturale. Io appartengo alla seconda categoria, di quelli per i quali ogni momento passato si tinge di seppia e assume un fascino insospettabile al tempo in cui esso è stato realmente vissuto. Le mattine delle vigilie di Natale della mia infanzia, ad esempio, quando venivo svegliata dalla puzza di broccoli fritti di mia nonna alle 6 di mattina, mai avrei immaginato che ciò sarebbe divenuto un giorno motivo di nostalgia.

Io vivo in luoghi, sapori, odori, rumori, luci che non ci sono più. Se chiudo gli occhi, posso rivedere perfettamente i coni di polvere nella luce pomeridiana della mia stanza, nella mia casa d’infanzia, mentre sono sdraiata per terra. Non so se sia effettivamente così, ma mi pare di esser rimasta in quella posizione per ore e ore.

Se la nostalgia è una malattia, io ci sono talmente abituata che non conosco lo stato di salute. Per me è un dolce dolore, che mi accompagna ogni istante della mia vita. Può però sfiorare il patologico quando presenta l’effetto collaterale della paura del futuro e dei cambiamenti. Quando il passato diventa una nicchia rassicurante in cui crogiolarsi. E’ utile allora riconoscere che è di se stessi, in realtà, che si ha nostalgia, di quei se stessi che si era: perché le lingue sono ingannevoli anche in questo: essere se stessi non vuol dire essere uguali.

Questa la raccomandazione a me stessa, appunto, e a tutti coloro che soffrano di nostalgia endemica.

Per chi , come Niki, invece ha tutte le ragioni di sentire l’effettiva mancanza di casa, al fine di scongiurare il peggioramento dello stato di salute nelle forme (forse esagerate) descritte da Hofer, posso solo consigliare a scopo preventivo una razione quotidiana di 10 minuti di tg4: di più è fortemente sconsigliato, onde evitare un fastidioso effetto rebound.

I cinque sensi e ciambelloni parlanti

 

Il mio amico Henning trovava molto comico il verbo sentire, poiché dopo averne fatto la prima conoscenza nel significato di “udire“, ha dovuto scoprire con suo sommo stupore e divertimento che si applicava anche alla sfera olfattiva (“senti che odore”), a quella tattile (“senti com’è liscio”), a quella gustativa (“senti che buono”).

Nessuna meraviglia dello stupore di Henning, quandi si pensi che il tedesco ha un verbo diverso per ogni percezione sensoriale: “hoeren” per quella uditiva, “riechen” per quella olfattiva, “fuehlen” per quella tattile, e “schmecken” per quella gustativa. Il tedesco è una lingua molto distintiva, molto più dell’italiano, nel quale solo il senso della vista ha un suo verbo specifico, e a tutti gli altri è assegnato un generale “percepire coi sensi”. In italiano il verbo “sentire” non si riferisce solo ai cinque sensi, ma anche… “al sesto”, vale a dire “percepire con la mente, giudicare”; in tedesco, dove i Sinne sono per l’appunto i cinque sensi, il verbo “sinnen” ha solo quest’ultimo significato di “percepire con la mente, giudicare, soppesare”.

Questo esempio è una delle possibili dimostrazioni del fatto che la lingua non è un repertorio di parole traducibili 1:1, e che i traduttori elettronici (neppure il Babelfish!) non saranno mai in grado di sostituire interpreti, e che ci sarà – volesse il Cielo – sempre bisogno di insegnanti di lingue in carne ed ossa, imperfetti ed irrazionali come le lingue che parlano.

Ma torniamo al nostro “sentire”: si è visto come il primo e più importante significato appreso da Henning sia stato quella di “udire”, e per questo abbia trovato divertente le altre applicazioni, ma d’altra parte, riflettendoci, chiunque di noi, interrogato sul significato di “sentire”, darebbe come prima questa definizione senza pensarci su. Si direbbe che in italiano esista un rapporto privilegiato fra l’udire e il comprendere, come se l’udito fosse il più importante dei cinque sensi, tant’è vero che “sentire” vale anche per il tedesco “sinnen”, comprendere con l’intelletto.

L’altra sera, a cena a casa delle famiglia del mio compagno, il nonno, vedendo che prendevo una seconda fetta di ciambellone, mi ha chiesto  “hai inteso quant’è bono?” !!!! Intendere,  un altro verbo che vale per “comprendere” e funziona anche per “udire”, qua addirittura assume tanta importanza che si estende secondariamente anche alla sfera gustativa! Ho avvicinato l’orecchio alla fetta e ho detto “no, non sento niente”; lui ha fatto lo stesso e ha detto “neanche io”, e giù a ridere. Anche perché il nonno è quasi sordo.

L’udito dunque come canale privilegiato per comprendere…. curioso! Specie dal momento che ogni giorno che passa mi rendo conto che la gente non sa ascoltare. Davvero, è una specie di malattia contagiosa che mina il nostro vivere sociale: la gente parla, parla, parla, e quando arriva il momento di ascoltare…. se ne va. Cambia discorso. Ti interrompe continuando il proprio sproloquio ignorandoti. Ogni volta sono colta dalla tentazione di uscirmene con quella vecchia provocazione: “sai perché abbiamo due orecchie e una sola bocca?”. Ma poi me ne resto lì ad annuire sconsolata, sperando che il cattivo interlocutore si tolga presto dai piedi.

Ah, un’ultima cosa: quando parliamo, il nonno corruga la fronte e si sporge verso di noi cercando di cogliere ben bene i movimenti labiali.

Lui lo sa quant’è importante ascoltare.

Emergenze

 

disegno di un bambino di Ponticelli

 

Un dizionario della frequenza d’uso collegato alla bocca dei nostri politici (che almeno vi sia collegato qualcosa!) fornirebbe – credo – risultati interessanti sull’incidenza della parola emergenza. Nei TG essa si accompagna ultimamente a musichette inquietanti e compare in sintagmi con le parole “ROM” e “rifiuti”.

Vale la pena andare ad investigare cosa ci dica il DELI riguardo alla storia della parola e la sua sfera semantica.

emergenza: s.f.  ‘circostanza o eventualità imprevista, spec. pericolosa’ (1667, V. Siri: LN XIX (1958 ) 40)

  • Vc. dotta, lat. emergere, opposto a mergere ‘affondare’ (d’orig. indoeuropea). La voce emergenza è attestata dal XVII sec.: “I vocabolari italiani ne danno esempi fin dal Settecento, con un passo del Salvini registrato anche dalla Crusca: “la congiuntura de’ tempi e delle emergenze“; e cercando bene si troverebbe sicuramente anche qualche esempio anteriore. Dopo, lo troviamo adoperato di tanto in tanto: “La Nazione” del 6 giugno 1889 asseriva che ‘in qualunque grave emergenza, in ogni evento decisivo del paese, Camillo Benso di Cavour vide acutamente…’. In tutti questi casi, tuttavia, il significato è sempre quello di ‘circostanza, per lo più seria, che interviene inaspettatamente’. Il passo ulteriore che la parola ha fatto, è quello di ‘urgente necessità, pericolo’. E non c’è dubbio che su questo significato ha influito l’analogo uso inglese [emergency]: si sa che gli inglesi usano molto la litote eufemistica e si capisce che invece di dire ‘allarme, pericolo’ abbiano adoperato, per velare un po’ le cose, una parola più blanda. Teoricamente, è un emergere anche quello del numero che fa vincere cento milioni alla lotteria; ma ormai ci siamo abituati a chiamare emergenze solo quelle gravi, piene di pericoli, e adesso che la parola si è messa su questa strada, è difficile fermarla, tanto più che la locuzione stato d’emergenza è stata ufficialmente adoperata” (Migliorini, Profili)

Aveva ragione da vendere, il buon Migliorini. Infatti la parola, su quella strada, non solo non si è fermata, e suona più grave di “pericolo” (forse anche per l’assonanza con “urgenza”) ma ha addirittura acquisito il magico potere di creare delle emergenze laddove non ci sono, di creare allarmismo. La sola evocazione della parola è in grado di creare l’emergenza stessa. Dove prima c’erano dei problemi, gravi che siano ma gestibili con un po’ di sano buon senso, ora c’è lo stato d’ emergenza.

Allo stesso tempo, però, pare che la parola sia tornata al suo significato etimologico primario, ovvero di “cosa che emerge“. Non proprio inaspettatamente come vuole la definizione, però.

Io ad esempio un po’ me l’aspettavo, e precisamente dalla scorsa legislatura, dall’omicidio Reggiani, da quando il buon Walter Sepoffà (e infatti poi “si fece”), dopo 7 anni da primo cittadino di Roma, si accorse improvvisamente della presenza di campi nomadi a Roma. O dovrei forse dire si accorse di quanto fosse comodo farli “emergere“? Doveva scrollarsi di dosso l’aura di “buonismo” (altra parola molto di moda) di quelle checche arcobaleno, sempre pronte a difendere il “diverso”. E così, un giorno di dicembre, gli zingari sono emersi, come tanti zombie con le mani protese verso il nostro sacrosanto benessere fatto di portoncini blindati, videotelefonini e suv. Prima stavano rintanati nelle catacombe, forse, poi sono emersi.

O che stessero magari sepolti dai cumuli di spazzatura napoletana di locazione, ma italiana ed europea di provenienza? Interra oggi, interra domani, la monnezza emerge, oh! E magari con essa pure questi rifiuti umani, questi reietti, gente senz’anima e senza Dio, che ruba i bambini biondi a quelli col portoncino blindato e col suv.

Per fortuna da quando il Mensch ha scoperto il fuoco, questo ha risolto tanti problemi pratici: un mucchietto di cenere, pure buono per concimare, ed ecco che l’emergenza sparisce. Si può risommergere. Gli amici di Adolfo l’avevano ben capito, ed infatti il fuoco bruciava giorno e notte nei loro campi di lavoro. Quel lavoro che “rende liberi”. E liberi uscivano infatti in ampie volute di fumo, dai comignoli dei forni.

In quei forni bruciavano anche gli zingari e gli omosessuali, non solo gli ebrei. Ma questo non emerge mai. Quel fuoco purificatore ha purificato e reso innocente ed intoccabile per l’eternità solo un popolo, quasi fosse una questione privata e non l’aberrazione per eccellenza, quella di considerare che “Dio è con noi”, e contro gli altri. Non abbiamo imparato nulla dell’uomo e degli orrori che può compiere verso i propri simili, scientemente, senza neanche quella giustificazione dell’istinto che hanno gli altri animali.

Emergenze  ‘quelle gravi, piene di pericoli’, dice il Migliorini.

Certo, come anch’io so bene, non è piacevole constatare che dopo un incontro ravvicinato con lo zingarello ti manca il portafogli, e qualche volta col rodimento di culo che ti ritrovi tendi pure a dimenticare che quel ragazzino dovrebbe stare a scuola, e che non ti è venuto in mente di avvertire la polizia se non quando hai notato che veniva tolto a te il portafogli, mentre a lui veniva rubato il futuro.

Però parlando di sicurezza  mi sento molto più insicura ora a girare per strada nel timore che le mie gonne stile gitano incorrano nel “sospetto” di quei retti vigilantes della vera italianità, fatta di uomini timorati di Dio che non stuprano le donne, non investono i bambini, non ruberebbero nemmeno una caramella.

Nel giro di pochi giorni, la mia città ha sperimentato un raid ad un negozio gestito da immigrati regolari, un’aggressione ad un giovane dee-jay gay reo di essere tale, infine una spedizione punitiva neo-fascista ai danni di un gruppo di ragazzi che all’Università stavano attacchinando sui manifesti del convegno di Forza Nuova sulle Foibe, che il rettore Frati ha avuto il buon senso di annullare. Senza contare l’episodio di Verona. Mi domando se ce ne sia abbastanza per proclamare lo “stato d’emergenza“, l”emergenza grave, piena di pericoli’. Ah, no, giusto! Questi sono solo dei delinquenti isolati, dei pazzi senza appigli e senza ideologia, dei ragazzacci viziati.

Certe emergenze davvero non emergono mai. Stanno lì come un boccone indigesto che ti dà nausea costante, tanto che vorresti ficcarti due dita in gola e farlo emergere davvero, una volta per tutte, e scaricarlo nel cesso per non vederlo mai più.

Avete mai fatto caso a quanto è liberatorio?

disegno di un bambino di Ponticelli

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Foto: disegni di bambini di Ponticelli.

p.s. Rileggendo un pezzo di Coccoina di cui avevo avuto un’anteprima per e-mail, mi accorgo che la stesura del mio ne è stata influenzata. Siccome Coccoina è Coccoina, con le sue immagini nitide e spietate che mettono a nudo la natura umana, così che potreste non piacervi più voi stessi, vi invito vivamente a leggerlo e a riflettere.

Volonté ed i suoi privilegi semantici

Impazzano le polemiche per il rifiuto della Carfagna di… come dite? No, non di stare a cosce chiuse, ma di patrocinare il gay pride.

…Ma certo che la Carfagna è ministro per le pari opportunità, credetemi! L’hanno scelta dal paginone di Giugno di Max, dopo uno snervante testa a testa con la Chiabotto, cui è toccato accontentarsi della conduzione di real tv.

[fonte foto a fianco]

Si diceva, insomma, che ognuno vuole dire la sua sulla questione, che è scottante non tanto per il rifiuto in sé (ci fu un bel braccio di ferro anche col centrosinistra papalino), quanto per le esternazioni della Carfagna, secondo la quale “non è necessario”, e questo perché, in base ad una statistica fondata su delle chiacchiere scambiate con un paio di amici suoi (Dolce e Gabbana?) e accompagnate da svariati Martini on the rocks, è convinta che i gay non siano affatto discriminati.

Anzi! – rincara la dose Luca Volonté dell’UDC (N.b.: l’espressione idiota non è stata ottenuta con Photoshop)

(sì, l’UDC, quel partito per la famiglia cui appartiene tutt’ora il deputato Mele che quasi uccise a cocaina una delle due mignotte pagate coi nostri soldi in un albergo romano, e sempre quel partito cui appartiene anche l’onorevole Cesa, che parlò a tal riguardo della necessità di un “ricongiungimento familiare” per i deputati)

 

“anzi, è la la sinistra gay che chiama diritti i propri privilegi discriminatori verso le famiglie e gli eterosessuali”.

 

La “sinistra gay”! 😀 Già sugli orientamenti sessuali di un (fu) partito ci sarebbe molto da ridire. Ma è come rubare le caramelle ad un bambino. Passiamo oltre.

Gli faccio un po’ le pulci come piace a me, ma sempre con l’aiuto dei miei amici dizionari, eh?

privilegio: voce dotta, lat. PRIVILEGIU(M) “legge eccezionale”, cioè che riguarda una singola persona [o categoria, nota di ska], comp. di PRIVUS “singolo”, “isolato”, e un derivato di lex, legis (legge).

Quindi il privilegio è l’eccezione che conferma la legge, che evidentemente non è uguale per tutti. Esempi di privilegi:

  • immunità parlamentare
  • pensione dopo 3 anni
  • biglietti pagati al cinema, allo stadio, al teatro, ecc.
  • viaggi pagati per sé e famiglia
  • possibilità per un privato di tenere tre tv nonostante esista una sentenza della Corte Costituzionale che gli imponga di cedere una delle frequenze ad Europa 7
  • blablabla… (scusate, non lo so se lo spazio su WP è illimitato…)

Attenzione, però: sono privilegi anche questi:

  • pensione di reversibilità dopo la morte del coniuge
  • possibilità di visitare il proprio coniuge sul letto di morte
  • possibilità di subentrare al coniuge deceduto in un contratto d’affitto

Quindi, fatte salve le libertà individuali, quale quella di amare chi si vuole pur se dello stesso sesso, lo Stato non riconosce agli omosessuali, cittadini che pagano le tasse come gli altri, il diritto di unirsi civilmente in matrimonio come gli eterosessuali. Si dice che ai diritti corrispondano i doveri e viceversa, ma in questo caso, ad uguali doveri da parte dei gay, non corrispondono uguali diritti.

Potremmo definire discriminazione e privilegio come le realtà che si delineano laddove l’equilibrio di diritti e doveri viene spostato rispettivamente nel senso del dovere o del diritto. Sono dunque discriminati coloro che hanno più doveri che diritti, e viceversa privilegiati coloro che hanno più diritti che doveri.

Torniamo a Topo Gigio Volonté (lo stesso – proseguono i ricordi – che voleva istituire il reato di “apologia di comunismo”, al grido di “li staneremo tutti!”): leggo e rileggo la sua perla di saggezza, ma la semantica non mi viene in aiuto, nonostante tutto il sudore buttato su libri e dizionari: appurato che i privilegi, discriminanti di per sé, perché differenziano (lat. DISCRIMEN da DISCERNERE) dalla media, e che sono in tutto e per tutto diritti “speciali” sanciti dalla legge (in caso contrario si chiamerebbero abusi)… quali saranno i privilegi degli omosessuali, che discrimenerebbero le famiglie e le coppie etero?

Penso a famiglie rette, madre e padre con denti sanissimi, bimbi biondi ariani, perplesse di fronte alla scelta fra 5 film di Almodovar in un cinema multisala; penso a coppie etero cacciate dai concerti di Mina; penso al numero identificativo della tessera ARCIGAY da inserire per accedere ai video dei Village People; penso a giovani sposini costretti a ballare YMCA nel chiuso dei loro appartamenti insonorizzati e con le tapparelle chiuse.

Mah… l’unico privilegio che mi viene in mente è l’assenza dei preti al gay pride piuttosto che al family day.

W l’amore e la gioia di vivere e di mostrarlo al mondo! E viva la voglia di festeggiare, che non è “esibizionismo”!