Un post del c….

Si licet… una cosa che avevo messo da parte da un po’.

Minchia

Nel dialetto palermitano, inizialmente, il termine “minchia” indica l’organo sessuale maschile (che, con mirabile ed inquietante inversione, è una parola femminile, mentre l’organo sessuale femminile – lo sticchio – è una parola di genere maschile. Significa qualcosa? Boh, non sono un significatore, e non è che poi me ne fotta più di tanto). Ad una più attenta analisi si scopre però come il termine “minchia” non sia soltanto un termine, ma un vero e proprio ritmo del pensiero, una melodia di suoni che traducono con immediatezza una urgenza del sentimento. “Minchia” risulta essere quindi il suono che nel dialetto palermitano precede emotivamente (come ogni suono fa) il significato da esprimere, al punto che “minchia” riesce ad esprimere: dolore, paura, stupefazione, amore, odio, rabbia, gioia, estasi. Davanti a una femmina splendida che ti guarda eppoi si umetta le labbra indicandoti, “minchia” sarà l’unica parola pronunciabile. Rinnànzi l’aurora boreale, l’unico suono spendibile sarà sempre e solo “minchia”. E davanti al capolavoro di un golle all’incrocio dei pali, per rafforzare il valore di quanto accaduto si dirà: “minchia golle!”… E “minchia” fu l’unica cosa che le mie labbra riuscirono ad emettere quando appresi che la mafia si era asciucàta, dopo Giovanni Falcone, puru a Borsellino, Accussì è: di fronte all’indicibile dell’esistente, il palermitano questa oltranza impronunciabile la battezza con una parola contenitore: minchia.

Da Corriere Magazine del 4.09.08,  “Le parole che amo – tra ricordi, slang e dialetto” Davide Enia.

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Cenni storici

“Minchia” ha radici antichissime: risale al latino mentula (> mentla > mencla > minchia, fenomeno già spiegato qui), che sta per una versione un po’ volgare di “membro virile”, e come nomignolo irriverente è affibbiato da Catullo – sì, sì, quello di odi et amo, ma non solo – a un tale Mamurra, di cui nel carme 115 del libro si dice:

MENTVLA habet instar triginta iugera prati,

quadraginta arui: cetera sunt maria.

Cur non diuitiis Croesum superare potis sit,

uno qui in saltu tot bona possideat,

prata arua ingentes siluas saltusque paludesque

usque ad Hyperboreos et mare ad Oceanum?

Omnia magna haec sunt, tamen ipsest maximus ultro,

non homo, sed uero mentula magna minax.

 

(traduzione)

Minchia ha a un dipresso trenta iugeri a prato,

quaranta a campo; tutto il resto è maremma.

Perché non potrebbe superare Creso in ricchezza,

quando in una tenuta sola possiede tante ricchezze,

in prati, campi, in foreste immense, in pascoli e in paludi

fino agli Iperborei e all’Oceano?

Tutto ciò è grande, ma egli è ancora più grande;

non è un uomo, ma una minchia colossale e minacciosa.

 

 

Oh meravigliosa saggezza degli antichi!

Su wikipedia leggo che l’origine del termine è oscura, ma alcuni ricollegano la parola a mens, mentis (“mente”), di cui mentula sarebbe un diminutivo…. va bene che molti uomini con la mentula ci pensano, ma non mi spingerei così oltre. Più probabile la spiegazione alternativa, quella di Tucker, che lo ricollega al verbo eminere, “sporgere” sicché tanto mens quanto mentula risultano sì imparentati, ma come dilatazioni di significato più o meno figurate di “qualcosa che sporge, che spicca”. Alla stessa etimologia risalgono anche “monte” (mons) e “mento” (mentum). Alla base di tutte queste sporgenze, dunque, addirittura la radice indo-europea *men.

Tutto ciò un po’ a titolo di curiosità (stile rubrica “forse non tutti sanno che”), un po’ per par condicio con l’altro post riguardante alcuni nomignoli dell’apparato riproduttivo femminile. Ma soprattutto perché mi piace da pazzi la schiettezza cristallina di alcune parole ritenute volgari. E se avete obiezioni o rimostranze in tal senso, esprimetele pure senza problemi, che vi faccio rispondere da altri tre carmi di Catullo e da una lettera di Cicerone. 🙂 Anzi, mi sa che lo farò comunque.

Poi una domanda: secondo voi, non è un po’ incompleta una scuola che ci presenta solo un languido Catullo innamorato della sua donna crudele? O un Boccaccio che scrive solo di fanciulle rapite dai pirati e disperse per il Mediterraneo? Che disconosce l’Aretino, il Trilussa e il Belli? Che senso ha questo malriposto senso del pudore, sventolato da coloro che poi ci propinano donnine discinte e stupidamente sorridenti ad ogni cosiddetto format per la famiglia?

Infine una richiesta: visto che il “minchia” di Davide Enia è parte di un articolo intitolato “Le parole che amo – tra ricordi, slang e dialetto” perchè non mi regalate una parola del vostro dialetto che sia un “ritmo del pensiero”?