Chi va con lo Zopo ha un telefono cinese

Da un paio di mesi, la mia occupazione quotidiana, dalle 3 alle 4 e mezza circa, è l’assistenza al pargolo nella conquista scritta dell’idioma: è un momento che spesso genera mostri, per la mia inadeguatezza nel combinare le figure della madre e dell’insegnante e per la sua tendenza ad appoggiarsi pigramente e tirare ad indovinare pretendendo un feedback sì/no e incazzandosi se non l’ottiene, motivi per cui evito di sedermi accanto a lui e intervengo il minimo indispensabile, spesso fornendo stimoli alla riflessione e poi lasciandolo col dubbio, cosa che lo manda in bestia. Cerco anche di non precorrere mai i tempi e insegnargli cose in anticipo, ma capita che se sta facendo le sillabe sta-ste-sti-sto-stu si trovi a scrivere “stalla” nei quadretti, e non avendo ancora affrontato le doppie gli avanzi una casella. Al che gli dico: se leggo quello che hai scritto tu, io leggo “stala”… e lui “no, è STALLA!”, “ecco, questa L senti com’è forte? E’ così forte che ce ne vogliono due”. E lì è finita. Finché giorni fa, in macchina, mi dice “dobbiamo comprare una zucca… ZUCCA… ZUCCCCCA…. mamma! Zucca si scrive con due C, sennò sarebbe *ZUCA!”…. Yuppie! Mio figlio si è impadronito della bestia nera di ogni studente straniero di italiano: le doppie, o, per dirla con linguaggio tecnico, la lunghezza consonantica. O meglio, la padroneggiava già come competenza nativa, ma è stato in grado di fare una riflessione metalinguistica su di essa, ovvero usare la lingua per riflettere sulla lingua stessa. Ma perché mio figlio, a 6 anni, è in grado di sentire questa differenza, mentre con molti dei miei studenti ce ne posso mettere pure 10 di consonanti, senza che riescano a sentire alcunché? Perché in italiano la lunghezza consonantica ha carattere distintivo, ha valore fonematico.

Qui interviene la distinzione fra fono e fonema: il primo, di cui si occupa la fonologia, è semplicemente un suono “occasionale” di una lingua o di un dialetto, una realizzazione anche solo personale o locale, come ad esempio, rispettivamente, la cosiddetta “r moscia” o la gorgia toscana: non fanno parte della lingua come sistema, nessuno insegnerebbe a un bambino o a uno straniero quel suono, che esiste e dunque viene rappresentato e trascritto, ma non appartiene a quel serbatoio “funzionale” che fa sì che riusciamo a capirci l’un l’altro; il secondo, di cui si occupa la fonematica, è invece un suono “importante” per la nostra lingua, un suono di sistema, qualcosa che se venisse a mancare lascerebbe un buco nella reciproca comprensione, insomma, come si dice in gergo, ha carattere distintivo. “Distintivo” perché quel tratto, appunto, con la sua assenza o presenza può distinguere almeno una coppia di parole, che viene detta “coppia minima”, in cui due parole si distinguono solo per l’assenza o presenza di quel determinato tratto. E’ in teoria sufficiente che esista una sola coppia minima nel sistema-lingua, perché quel determinato tratto abbia carattere distintivo, ma in quel caso il tratto sarebbe poco produttivo e si estinguerebbe da sé, destino riservato ad esempio all’opposizione s sonora e sorda: “chiese” passato remoto di chiedere, da pronunciare con s sorda,  e “chiese” plurale di “chiesa”, da pronunciare come sonora… voi sentite differenza? Io sono romana e le pronuncio entrambe sorde, quindi faccio fatica.

Un grande rendimento funzionale ha invece il tratto sonorità nelle consonanti occlusive: p e b sono entrambe due consonanti occlusive labiali, e si distinguono soltanto per la presenza in b del tratto sonorità: bollo vs pollo, balle vs palle, ecc. Il che significa che anche laddove una parola con p non abbia il suo corrispondente con b per costituire una coppia minima, io riesco comunque a riconoscere quel suono e a classificarlo come p, perché il mio orecchio è stato allenato proprio dalle suddette coppie minime al riconoscimento di questa differenza di suono, con relativa attribuzione di un senso. Le coppie minime, ad ogni modo, sono un ottimo sistema per allenare l’orecchio nei non nativi, ricordo infatti di averne parlato qui.

Tornando alle nostre vituperate doppie, occorre notare che l’italiano è l’unica tra le lingue romanze che abbia conservato il carattere distintivo della lunghezza consonantica, ereditato dal latino.

Il latino aveva come caratteristiche distintive tanto la lunghezza vocalica (POPULUS con o lunga “pioppo”, POPULUS con o breve “popolo”) che quella consonantica, articolate in 4 combinazioni :

  1. vocale breve + consonante breve
  2. vocale breve + consonante lunga
  3. vocale lunga + consonante breve
  4. vocale lunga + consonante lunga

Se volessimo attribuire una durata ipotetica 1 a consonante o vocale breve, e 2 a consonante o vocale lunga, troveremmo che le combinazioni 2. e 3. hanno durata 3, mentre la 1. e la 4. rispettivamente 2 e 4, una troppo breve, l’altra troppo lunga. Il travaglio che ha portato alla nascita del volgare dal latino medievale, con tutti gli stravolgimenti in ogni branca del sistema, in particolare con il prevalere dell’accento intensivo su quello melodico (ma qui si entra veramente troppo nel tecnico), ha fatto sì che si imponesse un criterio di isocronia sillabica, cioè di livellamento nella durata delle sillabe, che ha portato alla sopravvivenza dei soli tipi 2. e 3.e la scomparsa dei tipi 1. e 4. Allo stesso tempo, ha prevalso come carattere distintivo solo la lunghezza consonantica, mentre quella vocalica, fondamentale in latino, è rimasta come caratteristica accessoria di cui non abbiamo coscienza o consapevolezza: in sillaba chiusa, prima di una consonante lunga o doppia, o di un gruppo consonantico la vocale sarà breve, mentre in sillaba aperta (che termina cioè con una vocale), la vocale sarà sempre lunga: la sillaba ca- è lunga in “casa” e breve in “cassa”, ma quella che noi sentiamo è solo l’intensità della consonante, mentre quella vocalica è solo “di posizione”, una conseguenza accessoria, proprio perché non esistono, in italiano, coppie minime che si distinguano solo per la quantità vocalica. Restando in zona europea, l’unico ceppo che preveda la coesistenza della lunghezza tanto vocalica che consonantica è quello ugro-finnico (ungherese e finlandese), mentre, in area romanza, l’italiano è l’unica lingua che abbia conservato la lunghezza consonantica come carattere fonologico. Tutto questo cosa ci insegna? Che l’italiano è una lingua perversa e ostica per il resto del mondo, e impararlo decentemente comporta per lo straniero uno sforzo non indifferente che però verrà ripagato con lo sfoggio di bellissimi giochi di parole quale quello che ha dato il titolo al post, o “chi ha capelli non porta cappelli” (che però non è una vera coppia minima perché anche la “e” è diversa); che gli italiani sono buoni candidati per imparare il finlandese; che bisogna stare a debita distanza dai ragazzini alle prese con le prime doppie, perché nell’esercitarsi nella pronuncia sputano.

E qualcos’altro che dopo 3 giorni di scrittura random dell’ennesimo post tecnico inutile non ricordo più. Va’ a capire perché l’ho scritto.