Cronache dalla maternità: lo svezzamento

Dice: “non scrivi più”.

Il fatto è che quando sei incinta tutti ti dicono che la tua vita cambierà, nessuno però si sogna di essere più preciso: ti viene espropriata. La mia vita è cambiata un milione di volte, ma sono sempre riuscita, con maggiore o minor successo o soddisfazione, a “far quadrare i conti”, a gestire il mio tempo, a infilare le mie passioni nei ritagli di tempo.

Ora invece,  il tempo è un conto alla rovescia di un quiz a premi: suonato il gong, i giochi sono finiti, e il premio in palio era una doccia (il bagno è un lontano ricordo). A volte anche mangiare pare un lusso. Pian piano l’organizzazione migliora, ma ciononostante gli imprevisti sono la regola. La cosa bella è che lo gnomo dorme tutta la notte dall’età di tre settimane, e quindi potrei approfittare delle ore notturne, da sempre a me le più congeniali, per dar fiamma al sacro fuoco dell’arte, delle lettere, dello studio. Se non fosse che mentre lo allatto spesso crollo prima di lui…

In parole povere: sono una madre, e non delle più organizzate. Ma almeno a leggicchiare mentre lo gnomo poppa riesco, a gironzolando per la rete ho scoperto che la rete pullula di mamme superfighe che riescono a crescere due o tre figlio, cucirgli vestitini a mano, bambole di pezza e fabbricare fasce portabebè,  praticare l’elimination communication, dipingere, e riuscire anche a trovare il tempo per raccontare tutto ciò, documentarlo con foto e condividerlo dunque col mondo. E badate bene che elencando tutto questo non sto subdolamente insinuando che non riescano davvero a farlo, o dare una sfumatura ironica al termine “superfighe”. Sono io che sono una pippa, mi sa. Tant’è vero che posso annunciare qui a metà post che per scriverlo mi ci sono volute diverse sessioni in diversi giorni nell’arco di una settimana.

Comunque con quanto scritto sopra non vorrei dare l’impressione di essere stanca, stressata, o peggio pentita. Stanca a volte lo sono ma solo fisicamente. (Oddio, ci sono anche giorni difficili in cui mi viene da annunciare che esco un attimo a comprare le sigarette, io che ho smesso di fumare già da tempo). Per il resto, avere Flavio è la cosa più sensata che ho fatto nella mia vita. Un tempo questa mi sarebbe sembrata una frase stucchevole da donna senza una propria individualità. Ora non è più così, e la mia individualità è per forza di cose condivisa. Diciamo che l’ “effetto pancione” non svanisce magicamente col parto, né qualche giorno dopo. A volte lo riproduco mettendo Flavio stretto stretto a me nella fascia, e lui se ne sta beato mentre faccio un dolce, stendo il bucato o faccio la fila alla posta. Altre volte il pancione è più estensibile, ma non sfora mai le pareti di casa. Non è così elastico da raggiungere qualche chilometro. E dire che ne avrei di braccia fidate a cui lasciarlo, ma sono io che non voglio. Ora che sono madre, non è che semplicemente ho un bimbo da accudire, cosa che può fare qualunque babysitter: è che una parte di me abita in lui, che pure è già una piccola persona col suo carattere, la sua personalità. Ragione per cui ancora non riesco ad immaginarmi di poter passare le ore a perdermi nei miei pensieri in libreria, o vagare per la città con un Ipod e senza una vera mèta come una volta.

Questa sensazione di simbiosi è, credo, rafforzata, cementata dall’allattamento.

Uomini, vi darò una notizia che vi sconvolgerà: davvero le tette non sono state  pensate per voi. Sono il proseguimento del cordone ombelicale. E’ evidente che mio figlio, pur avendo – come detto – già una sua evidente personalità, non ha ancora coscienza di sé, e si identifica con sua madre. Quando si attacca al seno, non sta solo soddisfacendo un bisogno fisiologico, ma anche e soprattutto emotivo: torna “a casa”. Un bimbo allattato al seno non lo cerca solo ogni tot ore per nutrirsi, ma anche quando ha mal di pancia, quando si sveglia di soprassalto per un rumore, quando gli prudono le gengive, quando si sente solo. E’ questo il motivo per cui personalmente non posso pensare di lasciarlo anche solo per un’oretta dopo averlo allattato. Siamo ancora in una fase in cui gli sono necessaria per ogni sua esigenza, che sia di tipo fisiologico o affettivo. Per questo quando mi si invita a lasciare un biberon del mio latte e allontanarmi un po’ mi prende un colpo: mi sentirei di prendere in giro mio figlio mettendogli in bocca una cosa di gomma spacciandogliela per il mio seno. Mamme che passate di qua: sia chiaro, questo è solo il mio punto di vista, non c’è giudizio di merito per chi non agisce come me, senza ipocrisia. Il tiralatte sembrava una moderna scappatoia per la mamma bisognosa di un’ora d’aria, e invece per me è stato solo lo strumento che più di una volta mi ha salvato la salute, visto che ho scoperto di essere una formidabile produttrice di latte (mio fratello dice che dovrei mettermi a fare la balia) e ho avuto una mastite con febbrone annesso.

Ma ecco che arriviamo al punto: lo svezzamento.

Appurato che l’allattamento esclusivo al seno è un periodo di simbiosi madre-figlio, lo svezzamento dovrebbe essere, anzi è a tutti gli effetti, l’inizio dell’indipendenza del bimbo, della presa di coscienza della propria individualità, innanzitutto nel nutrirsi. Infatti, da madre cozza quale ho dovuto constatare di essere, appena Flavio ha compiuto i sei mesi e gli ho offerto le prime cose alternative da mangiare, mi è presa per un paio di giorni una mezza crisi depressiva. Per dire quanto mi sono rincoglionita. Ma è passata, quindi anche noi passiamo oltre il racconto di quel momento, che davvero non mi fa onore (saranno gli ormoni, boh).

Ora: lo svezzamento così come proposto dalla maggior parte dei pediatri funziona con l’introduzione graduale di un alimento per volta, per monitorare eventuali allergie: in pratica il primo pasto che si offre al piccolo è una zozza brodaglia che via via si fa meno brodosa ma sempre zozza rimane, come quella zuppa che ci ripropinarono anni or sonoin campo scuola a Praga per una settimana, e che sembrava sospettosamente quella del giorno prima con qualcosa in più. In realtà diversi studi hanno mostrato che queste pratiche di svezzamento sono legate ad antiche consuetudini che prevedevano un abbandono dell’alimentazione lattea già a 2/3 mesi, con la conseguenza che l’ovvia immaturità dell’apparato digerente del piccolo esigeva cautela nell’introduzione degli alimenti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di non cominciare mai lo svezzamento prima dei 6 mesi compiuti, poiché fino a quest’età il latte materno (o, quando non disponibile, il latte in formula) è l’alimento ottimale, in grado di soddisfare ogni esigenza del bambino. Più o meno intorno questa età, è il bambino stesso a darci chiari segnali di essere pronto: sa sedere da solo con sicurezza e senza stancarsi, ha una migliore manualità, dimostra vivo interesse per il cibo dei genitori, ruba loro il cibo dal piatto, prova a masticare e magari si fornisce pure di uno o due dentini. E’ evidente che c’è un motivo chiaro per cui la natura ha previsto che tali abilità si acquisissero attorno ai sei mesi, e non prima.

Ed eccoci quindi giunti a un suggerimento tanto semplice quanto rivoluzionario, fin troppo moderno nella sua antichità: lasciare fare al bambino ed aver fiducia in lui. Fregarsene di ricette, ricettine e dosi, non cucinare a parte per il bambino, offrirgli quello verso cui mostra interesse, darglielo solo finché ne ha voglia, senza mai forzarlo. E se mangia pochissimo? Semplicemente, integrare con il latte: pian piano sarò il bimbo stesso a chiedere meno poppa e più pappa.

Ma ahimè, il mondo è bello perché è avariato, e in questa enorme piazza che è la rete e dove si trova di tutto, mi tocca leggere che alcune madri, discutendo di svezzamento su un forum, dicono “io le prime due volte dopo gli ho dato la tetta, ma mo’ basta: deve imparare che se ha fame c’è quello e stop”. Praticamente se è vero che da una parte io sono malata di mente e se non voglio che mio figlio faccia il suo pranzo di nozze al mio seno, giustamente è ora di insegnargli piano piano a mangiare, dall’altra parte c’è chi darebbe al pargolo un pacco di pasta e una padella in mano, oppure 5 euro per andarsi a comprare un panino.

Sempre l’OMS, poi, ci ricorda che anche con l’introduzione di alimenti complementari (che è, come vedremo, un modo più esatto di definire lo “svezzamento”), il latte rimane fino all’anno di vita la fonte principale di alimentazione del bambino, e che fino a due anni è consigliabile mantenere un paio di poppate al giorno, per esempio quella prima di dormire. In barba a tutte le considerazione sulla salute del bambino, la genuinità del latte materno, le implicazioni emotive che, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, vedono un bimbo allattato al seno anche a lungo come più sicuro di sé perché soddisfatto nel suo bisogno di essere rassicurato, mi tocca leggere questo (qui il link per leggere tutto)

Lo svezzamento, ovvero il momento in cui si educa il bambino a bere dal biberon e in seguito a prendere le prime pappe, segna un passaggio fondamentale della vita.

Per quanto amorevole e meravigliosa sia, ad un certo punto sia noi che il nostro bambino avremo bisogno di abbandonare la pratica dell’allattamento al seno!

Simbolicamente rappresenta il completamento di quella rottura avviata con il taglio del cordone ombelicale. Il bambino si emancipa totalmente dalla madre, diventando indipendente sulla nutrizione, fondamento primo della sua sopravvivenza.

Per le mamme che hanno latte si consiglia di procedere allo svezzamento solo dopo i sei mesi.

Il primo accorgimento da tenere presente è la gradualità con cui si dovranno svolgere tutte le operazioni.

Inizieremo con l’intervallare il biberon al seno, aumentando di giorno in giorno le poppate artificiali. Il bambino non si accorgerà della sostituzione delle poppate al seno e comincerà a percepire come naturale la tettarella.

Pian piano nostro figlio sarà completamente svezzato.

Il rosso è mio e serve ad evidenziare i punti secondo me più assurdi. Che un bambino di emancipi totalmente ed improvvisamente dalla madre è falso. Il biberon viene descritto come una tappa obbligata, mentre mi sa che mio figlio (e non solo il mio) non ci passerà mai, visto che il latte lo prende da me e l’acqua che comincia a bere la beve dal suo bicchiere a beccuccio o anche dai nostri come un vero professionista. Il latte artificiale è un pallido seppur in alcuni casi (meno di quanto generalmente si voglia far credere) necessario sostituto di quello materno, e non costituisce tappa dello svezzamento a meno che la madre per qualche ragione non ne possa più, e il trucchetto di alternare il seno al biberon mi sembra crudele e scorretto nella sua dichiarata intenzione di ingannare il piccolo, minando in tal modo già a monte il rapporto di fiducia fra mamma e piccolo.

Una tale visione ci porta dritti al nocciolo linguistico della questione (che devo trovare per forza per dare un senso a questo post in questo blog): la parola “svezzamento“. Quando la sentiamo, la colleghiamo tutti per l’appunto al passaggio graduale dal latte alle pappe. Eppure, in sé, è un termine molto generico: se l’avvezzamento è un abituarsi, lo svezzamento è un disabituarsi. Ci si può svezzare dunque anche dal fumo, dal farsi le canne o dal mettersi le dita nel naso al semaforo. La cosa interessante è che “vezzo” viene dalla stessa radice di “vizio”, il latino VITIUM. Si dice che “vezzo” e “vizio” sono due allotropi di VITIUM,  cioè sono due forme che hanno avuto una diversa derivazione (e quindi una diversa storia anche semantica) dallo stesso termine di partenza: l’una, “vizio”, dotta; l’altra, “vezzo” popolare.  Eppure per una di quelle incoerenze tipiche delle lingue vive, è “vezzo” a sembrare più ricercata. Ovvero se “vizio” ha una valenza negativa, di qualcosa che fa male alla salute, tipo fumare o farsi 5 pugnette al giorno (cosa che notoriamente fa diventare cechi), “vezzo” è sì più affettuoso, ma si ammanta di un senso di superfluità. Un gesto carino ma non necessario. Di qui i vari “Oh, ma lo allatti di nuovo? Ha appena finito!” “Ma sta sempre attaccato!”, di chi poi confessa candidamente di avere allattato a suo tempo non più di un mesetto, dopodiché il latte è finito, ignorando che ciò è impossibile se si offre il seno al bambino ogni volta che lo richiede, specie i primi tempi, perché è lui a stimolare la produzione dell’esatta quantità di latte di cui ha bisogno. Da notare che spesso a premere affinché si “svizi” il prima possibile il pargolo sono persone che fumano due pacchetti di sigarette al giorno o che non sopportano di non sentire il sottofondo della tv tutto il giorno.

Ma va bene: la maternità è una disciplina in cui ogni vostro vicino alle poste o al supermercato, uomini compresi, ha acquisito 3 o 4 lauree honoris causa, e ne sanno più di te sul tuo stesso figlio. Bisogna armarsi di santa pazienza e di un educato “hmhm” di assenso (in cui è specialista il mio compagno).

Tornando allo svezzamento: per le ragioni esposte, Lucio Piermarini (e non solo lui), l’autore di “Io mi svezzo da solo” (anche qui), che è il libro da cui ho tratto le mie informazioni sullo svezzamento “naturale”, preferisce l’espressione “alimentazione complementare a richiesta”, che se è priva dell’incisività di un unico termine, è però più esatta e fa il paio con “allattamento a richiesta”, di cui è la naturale conseguenza e integrazione. Si può chiamare questo metodo (che poi in realtà è un anti-metodo) autosvezzamento. C’è da dire che l’autosvezzamento così come proposto da Piermarini è una versione un po’ più soft di quello che negli Stati Uniti viene definito Baby Led Weaning: Piermarini dice di sminuzzare più o meno, in relazione all’abilità e al numero di denti del piccolo, il boccone verso cui questi mostra interesse, mentre il BLW prevede che si lasci mangiare il bambino con le mani, senza sminuzzargli i bocconi, per permettergli di sperimentare fin da subito forme e consistenza dei cibi, lasciandogli piena autonomia nella gestione del suo proprio cammino alla scoperta dell’alimentazione adulta. Suonava così bene che ho voluto provare anch’io: ho messo Flavio nel suo seggiolino attaccato al tavolo, gli ho messo davanti il suo piatto con davanti un pezzo del cavolfiore che stavo mangiando anch’io, e ho aspettato. Il suo sguardo si è illuminato, ha allungato la manina, ghermito il fiore dal gambo, e se l’è portato alla bocca spiaccicandoselo in faccia…. irresistibile, da mangiarselo! Sono corsa subito qualche metro più in là a prendere la macchina fotografica per immortalare quel momento storico, senonché al mio ritorno la foto era l’ultimo dei miei pensieri, visto che mio figlio se ne stava a bocca spalancata senza respirare e con gli occhi sgranati. Attenzione, non ha avuto un conato, che ha già sperimentato diverse volte senza problemi e senza panico mio: aveva proprio un boccone incastrato. Al che ho scoperto due cose: la prima è che almeno con mio figlio l’istinto materno ha la meglio sulla mia proverbiale paralisi in una situazione di pericolo, così da farmi richiamare vividamente dai recessi della memoria un servizio sulle tecniche di salvataggio dei neonati visto distrattamente chissà quando, cosa che mi ha permesso in pochi attimi di slegare lo gnomo, metterlo a pancia in sotto leggermente inclinato, ed assestargli un paio di colpi decisi in mezzo alla schiena, dal basso verso l’alto, facendo uscire l’infame cimetta di cavolfiore tutta intera, che sia stramaledetta; la seconda è che ‘ste americanate non fanno per me, o almeno se ne riparlerà quando avrà uno o due denti o masticherà almeno con le gengive. Fino a quel momento, Flavio mangerà quello che vuole purché frullato, e il cavolfiore ‘o damo ar gatto.