Tanto per dire

In questo blog disertato, uno degli ultimi segni di vita fu dedicato alla conquista del linguaggio da parte del mio primo figlio, lo stesso primo figlio che oggi lotta con le aste, le pance, i minuscoli corsivi e stampati. Avrà cominciato tardi a parlare, più tardi dei 2 anni, ma è veramente un professionista della parola, usa sfumature di significato, ha proprietà di linguaggio, maneggia periodi ipotetici con congiuntivi e condizionali da vero professionista, e da poco è alle prese con il sarcasmo e l’ironia.
L’altro giorno mi fa: “la maestra di matematica ci dà sempre 100 compiti… cioè, non proprio cento, eh? E’ per dire che sono tanti. E’ una cosa tanto per dire… si dice così, no? Quando non vuoi dire proprio quella cosa ma un’altra, si dice tanto per dire, no? Come ad esempio se uno dicesse “ammazza, quel bambino è proprio il più bravo della classe”, invece poi magari è un somaro. E’ tanto per dire, no? E’ ironico, no?”. Mio figlio ha scoperto l’iperbole e l’ironia.
Io lo guardo, ammirata e indecisa se lasciarmi andare allo sport nazionale di ogni mamma, il gridare al genio quando si parla del proprio figlio, per ciuccio che sia, oppure se prendere atto che magari – decisamente più probabile – è normale che a 6 anni si cominci scoprire la funzione poetica del linguaggio, ovvero quella che usa le parole per dire altro rispetto a quello che letteralmente significano, per dirla in termini saussuriani, insomma, quando si produce una frattura fra significante e significato, fra la parola, il segno materiale, scritto o orale che sia, e il significato a cui rimanda. La polisemia, il linguaggio figurato, le figure retoriche, sono tutti “errori”, “sabotaggi” di un codice, quello delle lingue naturali, non perfettamente biunivoco, come lo è invece un codice matematico o un linguaggio di programmazione; si basano sulla corrispondenza di assunti comuni, di esperienze del mondo, di conoscenze condivise persino sull’intonazione con cui vengono pronunciate le parole: tutte approssimazioni o paradossi che somigliano all’uomo e che incredibilmente riescono non solo a non inficiare la comunicazione, ma addirittura ad essere inimitabili e irriproducibili da parte di una macchina, almeno fino ad oggi.
Mentre mi perdo in queste fantasticherie, entra il figlio numero 2, 2 anni e mezzo e capacità linguistiche pari a quelle di un Minion, che esordisce con la sua prima frase di senso veramente compiuto della sua breve vita e perfettamente pronunciata: NON HO FATTO NIENTE. E anche qui, solo il bagaglio di umane esperienze stavolta proprio di una madre può permettere di interpretare questo enunciato non tanto come una figura retorica quanto piuttosto come una confessione. EXCUSATIO NON PETITA, ACCUSATIO MANIFESTA. Corollari di saggezza attraverso i millenni e i mutamenti linguistici.