Un punto di vista

Le valigie sono pronte: tempo di fare un bagnetto e si parte per la Sicilia… finalmente! A 31 anni vado a scoprire per la prima volta questa terra meravigliosa. Sarò di ritorno fra 10 giorni, spero con osservazioni sul magnifico dialetto siculo.

Nel frattempo, visto che mi è ripassato per le mani, vi lascio con questo che è lo svolgimento di un compito assegnatoci durante il corso. Ci si chiedeva cosa volesse dire per noi “insegnare una lingua”. Questo il mio punto di vista.

Non che sia chissà cosa, ma dove schiaffarlo se non qui?

A presto.

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Che significa insegnare una lingua?

 

Amo le parole, il loro suono, le sensazioni che evocano. Soprattutto amo la loro storia, perché so che la lingua vive e si evolve in funzione delle necessità comunicative, in conseguenza di eventi storici, culturali e di costume. Per questo trovo spesso utile ricorrere all’etimologia per riflettere sul senso di qualcosa, in una sorta di ricerca archeologica che porti ad esplorare i vari strati sedimentali di una parola e coglierne il valore nella sua interezza, vedere cosa è rimasto di quel valore iniziale, o in che modo si è trasformato. E però, come in questo caso, a volte la ricerca rimane per l’appunto solo archeologica, e non si può che prendere atto che il termine in esame non è che un rigido e fossilizzato contenitore in cui si agitano istanze diverse da quelle che hanno primariamente dato vita a quella forma. “Insegnare”, infatti, proviene dal latino tardo insignare, “incidere segni nella mente”, e appare in tutto e per tutto figlia del suo tempo. Il valore quasi brutale di un concetto come “incidere” suggerisce un processo univoco in cui l’insegnante prende la mente dello studente, la apre, e con lo scalpellino della sua erudizione vi incide segni permanenti. Nella più ottimistica delle interpretazioni, poi lo studente potrà prendere tali segni come delle linee guida e costruirci sopra. Ma la domanda da cui siamo partiti è comunque “che significa insegnare una lingua?”. Continuando a percorrere la strada di ricerca che ho intrapreso, sembrerebbe che la buona riuscita dell’attività di insegnamento dipenda totalmente o per la maggior parte dal grado di preparazione tecnica, dunque grammaticale, dell’insegnante stesso. Ma allora in cosa differisce un insegnante di lingue da un buon libro di grammatica?

E’ evidente che devo abbandonare per il momento questo cammino etimologico e scavare nel mio vissuto, per capire cosa accese in me, a mio tempo, la voglia di fare questo lavoro: mi concedo pertanto una piccola parentesi personale, che ha molto a che vedere con la mia posizione di allora di studentessa alle prese con una lingua straniera. A quei tempi studiavo filologia classica, e trovandomi già a metà del percorso, s’imponeva la necessità dello studio del tedesco per poter poi affrontare l’ampia bibliografia in quella lingua al momento della tesi. Poiché trovavo i corsi organizzati dal mio dipartimento troppo “freddi” e pedanti, incentrati soprattutto sulla comprensione dello scritto, nonché troppo minimalisti (due ore a settimana), preferii frequentare, da “esterna”, il corso della facoltà di Scienze Politiche, che sapevo avere un ottimo dipartimento linguistico. Il nostro insegnante, Herr Senf, si presentò da par suo: un tipo alquanto sopra le righe. La sua prima lezione mi prese del tutto alla sprovvista: portò in classe un videoregistratore con un VHS, e ci mostrò la celeberrima ed esilarante conferenza stampa di Trapattoni nelle vesti di allenatore del Bayern München; meglio conosciuta come quella – per intenderci – in cui un furibondo Trapattoni sbatte violentemente il palmo della mano sul banchetto ripetendo “Strunz!”.  Ma non era allo “Strunz” (che altro non è che il nome del giocatore) che Herr Senf voleva arrivare. Trapattoni stava polemizzando sulla scarsa serietà professionale di alcuni suoi calciatori che continuavano a darsi per malati, a non allenarsi, a far festa, e a dare di conseguenza un modesto rendimento sul campo. Il suo tedesco, come Herr Senf ci fece notare, era al limite dell’imbarazzante, ma Trapattoni disse qualcosa destinato a lasciare il segno:  paragonò questi giocatori a una bottiglia vuota, “eine Flasche leer”, letteralmente, invertendo tra l’altro l’ordine obbligatorio aggettivo-sostantivo, ponendo quell’aggettivo indeclinato, e dunque quasi iconico, alla fine. L’effetto fu una sollevazione generale dei tifosi, che alla domenica successiva contestarono la squadra sventolando enormi sagome di bottiglia che recavano su la scritta “eine Flasche leer!”. Trapattoni, pur violentando la grammatica, era riuscito in un’impresa non facile per un discente alle prime armi: entrare nell’immaginario linguistico popolare dei tedeschi, per i quali l’immagine di una bottiglia vuota evidentemente ben suggerisce l’idea di qualcosa di inutile, inservibile, debole.

Herr Senf quel giorno ha insegnato: ha insegnato che la forza comunicativa viene prima della grammatica, che bisogna penetrare nell’anima della cultura di un popolo – di cui la lingua è espressione funzionale – e tradurla in immagini. Soprattutto ha insegnato che non bisogna aver paura di provare ad esprimersi in una lingua straniera perché non se ne conoscono compiutamente tutte le risorse grammaticali. Colui che impara una lingua straniera è come un bambino che cerca di comunicare con i genitori con gli scarsi messi a propria disposizione, costruendo e implementando la propria lingua giorno per giorno.

Fu l’esperienza personale di apprendere una nuova lingua in un modo nuovo, sperimentarla quasi da subito “sul campo” (in Germania), e anche quella di convivere con studenti stranieri alle prese con i primi rudimenti di italiano – con conseguenti e divertenti effetti di interferenza linguistica – a risvegliare in me l’interesse per l’apprendimento delle lingue e a spingermi a spostare il mio oggetto di studio dalla letteratura antica alla linguistica. La letteratura attiene infatti alla funzione poetica del linguaggio, una funzione ovviamente necessaria e presente in ogni lingua naturale, ma che comunque è secondaria rispetto a quella della comunicazione in sé. E anche restando nell’ambito di questa funzione, la correttezza della grammatica – intesa comunque come descrittiva e non prescrittiva – viene dopo rispetto all’esigenza di comunicare: “dopo” non in termini temporali, bensì di priorità. Imparare una lingua è anzitutto riuscire a comunicare fin da subito, almeno a provarci, e migliorare passo passo, tramite l’apprendimento della grammatica, la propria interlingua, per moltiplicare le possibilità espressive.

Un libro di grammatica, per quanto ben scritto, poco o nulla potrebbe dire sull’anima di un popolo, su ciò che per esso è importante o viceversa offensivo. Una lingua non è un repertorio di parole da imparare e regole da applicare. Per questo è fondamentale che l’insegnante di una lingua straniera sia di madrelingua e con un’attenta sensibilità verso i processi culturali che la sua lingua veicola. Insegnare una lingua significa fornire la più importante chiave di accesso all’anima della comunità che tramite quella lingua si esprime.

 Ma per ottenere questo è necessario che l’insegnante faccia un passo indietro sul terreno della propria erudizione e fornisca allo studente solo gli strumenti davvero necessari a poter compiere il proprio cammino da solo, ché lo studente non è certo una tabula rasa su cui trasferire nozioni, né una cartella vuota in cui scaricare un programma. Sarebbe forse più facile ma molto meno divertente, e con minori soddisfazioni da ambo le parti. E’ opportuno tener presente che nel processo di insegnamento-apprendimento è lo studente, e non l’insegnante, il protagonista, ed è perciò ogni singolo studente a dover sfogliare il bagaglio nozionistico dell’insegnante, alla ricerca di quel qualcosa in più di cui lui e solo lui ha bisogno per costruire la propria lingua; se poi c’è qualcosa che l’insegnante può “incidere”, questo qualcosa consiste in associazioni di fatti espressivi e culturali, che lo studente potrà riutilizzare a suo piacimento e rielaborare sposandole al proprio vissuto personale e al proprio quadro di riferimento culturale.

Cercando di ricollegare queste conclusioni all’etimologia della parola, da cui ho tratto spunto per questa riflessione, l’immagine che ora mi sembra più appropriata è quella del contadino che ara e coltiva la terra: egli può tracciare dei buoni solchi e utilizzare ottime sementi, ma la qualità del raccolto dipenderà in ultima analisi dalla composizione del terreno e dal clima.

L’ipocrisia delle parole

In tempi di tedio da blogosfera e pensieri di cancellazione, riprendo la parola solo ed esclusivamente perché ho ricevuto l’appello di Coccoina, per il quale – se non si fosse notato – ho un debole, quasi un amore virtuale-intellettuale che sfida conoscenza diretta ed età. Una “corrispondenza d’amorosi sensi”, un’affinità elettiva.

Dicevo del tedio da blogosfera: mi par un gioco narcisistico al chi è più intellettuale, chi più impegnato, chi più indignato, chi più informato, chi più colto, chi più politicamente corretto. Tutto questo dalla posizine protetta e privilegiata dietro un monitor, su una tastiera, senza un riscontro reale. Sono davvero pochi in grado di sapersi raccontare, sapersi scambiare opinioni. E’ tutto un dare lezioni, ed è questo che mi ha portato a riflettere anche sulla natura di questo blg, il mio. Ho voluto tematizzarlo per parlare dell’unica cosa su cui mi senta di sapere qualcosa in più della media: la linguistica. Ma a che giovano queste lezioncine, quest’inutile sfoggio di sapere settoriale? Tanto vale iscriversi ad un forum di linguistica, di cui la rete pullula, ma mi darebbe soddisfazione? Non credo, visto che rifuggivo questi “circoli degli Scipioni” già all’università. Allora, per renderlo appetibile ai lettori, non mi resta che farne un contenitore di gaffes, errori, lapsus come nel post precedente. Un calderone atomistico di curiosità. E poi a me non sono mai piaciute le luci della ribalta, sto meglio dietro le quinte. E preferisco fare l’ospite che la padrona di casa: da ospite posso starmene in un angolo e ascoltare gli altri, e parlare solo quando voglio. Da padrona di casa mi corre l’obbligo di preparare un salotto abbastanza accogliente da favorire il dialogo, e stimolarlo io per prima.

Ma io come padrona di casa sono sempre stata un disastro: compro patatine e snack, ma poi mi dimentico di offrirle. Poi quando me ne ricordo, anziché aprirle e metterle sul tavolo, mi esce un “volete per caso delle patatine?”, domanda a cui un ospite educato e con poca confidenza con la padrona di casa risponde “no, no, grazie”. E poi me le pappo il giorno dopo da sola.

Insomma, non so ancora se e per quanto questo blog continuerà ad esistere.

Ma ora veniamo all’ipocrisia delle parole.

Ieri mi è capitato, durante una delle mie visite in blog altrui, di assistere ad una discussione nata a proposito di un articolo su una violenza sessuale. L’autore del post (che non linko perché indegno) in sostanza ribadiva che nessuno ha il diritto di abusare di una donna, ma poi aggiungeva “per quanto troia” sia. Proseguiva raccontando di un episodio in cui ha preso eroicamente (!) le difese di una donna che veniva pesantemente importunata da alcuni uomini, a causa del suo comportamento da vera mignotta, ancheggiante e con minigonna e tacco 12. Ora lascio a voi il compito di tirare le somme sul rispetto delle donne che un tale personaggio può avere, pur evitando – vivaddio! – i toni da “se l’è cercata”. Il tizio in questione ribadisce più volte nella sua presentazione il suo amore per le donne, molto circostanziato, a dire il vero, visto che specifica accuratamente l’organo che più attira la sua attenzione, e l’uso che gli piace farne. Una blogger che molto stimo, Alice, l’ha rimesso al suo posto come le riesce tanto bene fare, e da lì si è scatenata una bagarre molto poco educata (da parte del tipo e dei suoi ospiti, certo non di Alice che ha ben altre frecce al suo arco). Mi sono inizialmente limitata ad un’osservazione sul significato di “omofobia”, visto che il tipo ignorante, per affermare che Alice è una femminsita che odia gli uomini, ha parlato di… omofobia! Ho spiegato cosa sia l’omofobia, e, come mi piace fare, cercato di spiegare anche la natura del suo scivolone linguistico: il fatto è che mentre per l’odio per le donne esiste il termine “misoginia”, il termine “misandria” è tardo, misconosciuto, ed è un termine riflesso, legato alla sfera femminista-estremista. Mi è venuto spontaneo osservare che tale “buco” nella nostra lingua la dice lunga sulla cultura maschilista (non sono femminista, ma rilevo che non esiste ancora una effettiva parità, nei fatti) di questa società. L’odio per gli uomini non è previsto, è una “conquista” del femminismo, se l’odio può definirsi conquista. Il fatto è che quando c’è una situaizone di forte squilibrio, gli estremismi sono necessari per riportare i piatti della bilancia in sostanziale parità. Il tizio ha ritenuto opportuno informarmi che anche l’equivalente femminile di “frocio” non esiste, e che dunque è pari e patta. Col cavolo! Ma qui siamo di nuovo nel campo della coniazione tutta maschile: un’offesa per “donna gay” non esiste perché l’omosessualità femminile è considerata più arrapante che disdicevole, basti solo vedere un porno a caso. Il mito della virilità porta a vedere come fumo negli occhi pratiche di sodomia, e allo stesso tempo a vedere come funzionali alla propria eccitazione le pratiche saffiche. Ora, io non ho mai avuto simpatia per quel tipo di lesbiche che odiano gli uomini, li cacciano dalle loro assemblee, vorrebbero tagliar loro il pene. Ma in sincerità arrivo a capire che deve essere irritante essere considerate oggetti sessuali da chi per te ha un appeal pari a uno zerbino. E immagino debba esserci una ragione se i gay uomini hanno solitamente amiche donne, muoiono dietro ad icone superfemminili come Mina o Madonna, mentre le lesbiche guardano gli uomini con diffidenza: sarà perché io non ho mai chiesto ai miei amici gay di baciarsi per arraparmi, mentre ho sentito fare questa richiesta a delle donne, al punto che perfino adolescenti disinibite sanno che il miglior metodo per attirare l’attenzione maschile in discoteca è strusciarsi l’una all’altra e assumere atteggiamenti ambigui?

La lingua, come forse è scontato ribadire, è lo specchio della nostra mentalità. E la mentalità italiana, oltre che maschilista, è pure ipocrita.

Così accade anche che, per aver detto che che il suddetto tipo va rispettato come minoranza, in quanto “diversamente intelligente”, mi sia beccata da un tale concentrato di ignoranza e volgarità gratuita una accorata critica a difesa dei diversamente abili che secondo lui avrei insultato.

Diversamente abili, capite? Ma quant’è bella quest’espressione! DIVERSAMENTE ABILI. Cioè non disabili, no, diversamente abili. E’ così che la nostra società si scarica delle colpe verso i disabili, delle macchine parcheggiate davanti agli scivoli per le sedie a rotelle, con sanzionamento che avviene una volta su mille, dopo che 999 disabili hanno dovuto fare il giro del palazzo per scendere dal marciapiede; dei marciapiedi alti 20 cm, degli autobus senza pensilina per carrozzelle, dei palazzi senza ascensore e senza scivolo.

Una giornata media per un disabile è un pentathlon, ma forse è per questo che li chiamiamo “diversamente abili”: perché devono inventarsi nuove abilità per poter sopravvivere, quali quelle di far lievitare la propria carrozzella, o comprimersi per poter passare fra le macchine parcheggiate; i ciechi sviluppano un sesto senso per sapere quando scatta il verde pedonale, o un sonar per individuare gli ostacoli. Per i benpensanti, l’espressione “diversamente abili” equivale a riconoscere che essi sono in grado di fare tutto quello che facciamo noi “normodotati”. Va bene, comunque sicuramente chi è su una carrozzella non può camminare, quindi per favore togliete quelle cazzo di macchine dai posti a loro riservati o da davanti agli scivoli! Preferisco riconoscere anche semanticamente che una persona ha OGGETTIVAMENTE un problema, e facilitargli la vita, anziché far finta di niente con un falso ed ipocrita atteggiamento da pari a pari.

Altri atteggiamenti di perbenismo linguistico:

Non si dice FROCIO, ma OMOSESSUALE!

Io i miei amci gay posso anche chiamarli affettuosamente e scherzosamente “brutte checche” o “brutti froci”, in loro presenza, con l’ironia e la fiducia reciproca che connota i nostri rapporti. Poi però vado a manifestare per le unioni gay anche se non è un probelma che mi riguarda direttamente (come spesso mi fanno notare i perbenisti), mentre chi si prende la briga di riprendermi poi dice che “poverini, non è colpa loro, devono curarsi”. Questa gente, proprio per la poca o nulla frequentazione di queste “persona malate”, non sa che alcune parole sono tollerate nelle cerchie di coloro che da queste parole sono toccati, o da quelli che con essi hanno abbastanza confidenza. I perbenisti educati riconoscono l’omosessualità e la tollerano, a patto però di non vederla per le strade, di non vedere mani maschili che si stringono teneramente. Sempre i perbenisti non dicono “frocio”, no, però ritengono che il matrimonio non possa estendersi agli omosessuali, perché ci sono “altre priorità”.

Non si dice NEGRO, si dice DI COLORE!

Ah sì? E di che colore? Anche i puffi sono di colore. Blu.

 

La parola NEGRO è trasparente: aggettivo dal latino NIGRU(M) > “negro”, di colore nero. Almeno specifica quale sia questo colore. Semanticamente è identico a “nero”. Però è ritenuto offensivo per la carica negativa messa nell’espressione da chi riteneva i negri prossimi a animali o strumenti da lavoro. Io questa carica negativa nella parola non ce la metto, e a dire il vero mi sento un po’ pedante e stupida nel dire “di colore”, mi fa sentire a disagio…. ma purtroppo mi tocca fare attenzione, se non voglio dilungarmi in interminabili spiegazioni di fronte ad occhi scettici ed accusatori di gente che poi magari chiama tutti gli africani “marocchini”, o sulla spiaggia parla loro come fossero dementi, usando parole dialettali e di difficile intellegibilità, ma omettendo però gli articoli.

Non sarà che chi male pensa, male fa?

Le parole sono innocenti, sono strumenti come i coltelli: non sono cattivi di per sé, si possono usare per sminuzzare aglio e prezzemolo, o per recidere una giugulare. Le parole sono anche contenitori di sentimenti o di giudizi, di ironia, di disprezzo, di amore. Una parola non può uccidere, ma il disprezzo che ci metti dentro sì, il menefreghismo di parcheggiare sul posto invalidi perché così sei più vicino a casa logora.

Io non ho nulla da nascondere, e perciò mi riservo il diritto di usare le parole nude, svelate, come le poppe di quella verità che il Tiepolo volle nuda, così come alla verità si conviene, e che solo chi ha qualcosa da nascondere può pensare di coprire con un reggipetto.

La parola ai bambini

Assieme agli stranieri, sono loro le vittime più divertenti dell’analogia (di cui già si è parlato qui).

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[bimba alle prese con un aggettivo specifico troppo difficile e troppo simile a una parola più semplice e che tutto sommato manco ci sta troppo male.]

Dialogo fra mamma e bambina di 6/7 anni, in risalita dal lago di Martignano. La bimba ha molto più fiato della mamma e si lancia in un racconto dettagliato di qualche – suppongo – gita scolastica:

bambina: e poi sotto c’era un piccolo fiume pulito pulito pulito e fresco, e intorno tanto verde…

mamma: e l’avete bevuta l’acqua?

bambina: no, penso che si poteva bere, ma non siamo scesi perché la discesa era troppo ruvida.

(l’aver sentito questo ha reso quel chilometro di salita per tornare al parcheggio molto meno ruvido anche a me) 🙂

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[bimbo di 3 anni – n ipote di una mia collega di corso – che inciampa nei verbi irregolari e che evidentemente non esce molto spesso a piedi.]

bimbo: Papà, voglio escere!

papà: Non si dice così. Si dice: “Papà, voglio u… u… ?”

bimbo: “Voglio… u… u… una macchina!”

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[bimbo di 2/3 anni che fa i capricci per strada, e si dibatte nelle difficoltà dei verbi modali irregolari e nelle regole della buona educazione. Il tutto davanti al mio amico Henning alla seconda settimana di studio dell’italiano]

bimbo: vuoi un gelato, vuoi un gelato!!!!

mamma: no.

bimbo: No, io vuoi un gelato!

mamma: come: “io vuoi un gelato”? Come si dice? “Io…?”

bimbo: io… vuoi un gelato… per favore!

Un brillocco è per sempre

Estate.

Leggerezza.

Mollo per un attimo i racchettoni e questo posto meraviglioso dove sguazzo gaiamente per fuggire la calura, per onorare il mio primo award bloggettaro, l’ambitissimo brillante weblog tributatomi da Tanuccio, con la motivazione

Perché mi insegna la lingua italiana che a me è sconosciuta.

Alla qual cosa aggiungerei che dichiaro di non aver ricevuto manco mezzo euro dal caro Tanuccio che prende lezioni a scrocco. Ma vabbè, lo perdono solo perché grazie a lui è giunto finalmente quel giorno tanto atteso in cui Angelina Jolie sta crepando di invidia per la sottoscritta: siediti sulla riva e aspetta che passi il cadavere del tuo nemico. Mi risulta infatti che ella non sia l’orgogliosa detentrice di un siffatto premio.

 

Questo è solo il primo passo. Il prossimo sarà vendere l’esclusiva di questo post a “People” e ovviamente devolvere il ricavato a favore dei bambini vietnamiti, dai quali mi recherò presto per rendere la mia famiglia colorita ed etnica, mettendone in fila una centinaio e indicandone uno “quello va bene! Mi faccia un pacchetto”; perché io e il mio uomo, Brad Cynsk, siamo filantropi e moderni, e non ci sposeremo finché tutti i gay non potranno farlo e la fame nel mondo non sarà sconfitta. Il primo pannolino sporco di cacca verdognola dei nostri piccoli sarà altresì messo all’asta da Sotheby’s, e il ricavato devoluto in favore dell’associazione “regala un ipod a un bambino africano”.

Ringrazio la mia famiglia perché se sono come sono lo devo al loro abbandono e menefreghismo; ringrazio anche quei quattro gatti di commentatori che fan lievitare il mio ego e ancora circolano in queste lande desolate in cui si sente solo il canto delle cicale, e i miei due gatti. Vi amo!

 

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Ma ora è giunto il momento si passare il brillocco ad altri 7 sventurati:

Twiga: perché con due parole ti ricrea un mondo, e il dono della sintesi e dell’incisività è qualcosa che mi lascia sempre sgomenta: dovevo essere a casa con l’influenza il giorno che l’hanno distribuita.

Coccoina, hosted by Twiga: perché è il Pennac italiano. Sul brillante award ci doveva stare la sua faccia sorniona. Chi non lo capisce e non si sforza di farlo, ci perde.

MaoBao: per le arie da sfascione che ama darsi, per le sue doti grafiche e musicali, e per la sottile capacità d’analisi socio-geo-politica che gli invidio.

Alice Suella: per le brillanti doti scrittorie, nonché per l’originalità delle associazione di immagini e parole. E’ perché è una blogger cui non interessa nulla, ma veramente nulla, di risultare simpatica ai suoi lettori. I quali d’altra parte si lasciano insultare di buon grado. Ammirevole.

Gli altri 3: non ce l’ho, sono in ferie, sono spariti dalla blogosfera, o sono già stati insigniti prima di me, o fortunati loro!

E poi il mio blogroll non è ancora così lungo da poterlo scrivere su un rotolone di scottex a misura Divina Commedia.

Saluti brillanti

Ska